AA.VV.

Antologia

del Decennale

© 2022 TraccePerLaMeta Edizioni

Associazione Culturale TraccePerLaMeta

www.tracceperlameta.org

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Collana Arancione - Antologie

Numero 299 - Edizione del decennale

Edizione speciale Settembre 2022

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,

di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopie

senza il permesso scritto dell’Editore.

Libro a lettura facilitata. In questo volume sono stati

adottati accorgimenti, quali tipo e grandezza del

carattere, giustificazione e interlinea del testo, atti

a facilitare la lettura a soggetti con Disturbi Specifici

dell'Apprendimento (DSA).

Progetto grafico di copertina: Stefano Dalzini

Impaginazione: Danilo Torraco

AA.VV.

Antologia

del Decennale

Collana Arancione - Antologie

TraccePerLaMeta Edizioni

PREFAZIONE

10 anni!

TraccePerLaMeta compie 10 anni.

Ben 10 anni che sono diventati parte della nostra vita e riferimento per i nostri sentimenti di amicizia e di condivisione di passioni e di idee che ci legano.

Perché, anche se in realtà i Soci dell’Associazione Culturale che mi onoro di presiedere sono relativamente pochi, gli amici, gli artisti, i poeti, gli scrittori, gli amanti della bellezza che abbiamo incontrato negli anni e che hanno partecipato ai nostri eventi, perfino vincendo i nostri concorsi, sono moltissimi.

A molti è piaciuta la proposta: abbiamo pensato di regalare un’antologia scaricabile gratuitamente a chi ha desiderato essere con noi anche in questa festa artistica, un modo per esserci, per ritrovarci, per dirci reciprocamente: “Ci siamo!”.

Ecco, quindi, in queste pagine da sfogliare, il regalo di chi ha creduto e crede in TraccePerLaMeta, riconoscendosi in quei canoni artistici, di azione e di comportamento che abbiamo scelto come guida: non è vero che ogni uomo è solo e abbandonato a se stesso. Abbiamo scelto di confidare nel fatto che ogni essere umano ha una meta, bisogna soltanto riconoscere le tracce che portano ad essa.

Buona lettura!

Anna Maria Folchini Stabile

Presidente

POESIE

Anima crisalide

Voglio perdermi

nell’illusione di un sogno

che dà ragione all’esistere.

Sazia d’effimero

sospiro di casualità

allegata invisibile d’intenzioni.

Respiro

beneficio del dubbio

quale imprevista possibilità.

Nell’assoluta bellezza

smarrisco

il senso del possesso.

D’anima crisalide

dispongo

il volo

Francesco Adragna

Biografia

Francesco Adragna, siciliano della Noto “giardino di pietra” di Cesare Brandi - oggi lombardo di adozione - vive a Varese, dove lavora come insegnante. È presente in alcune antologie ed enciclopedie come quelle di “Poesia Contemporanea” della Fondazione M. Luzi di Milano e della Aletti di Roma. Con diverse menzioni di merito come quelle dei premi Alda Merini, Città di Sarzana, M. Buonarroti, O. Wilde, L.S. Senghor e L. Montano di Verona consegue riconoscimenti vincendo i premi “Professionisti di Pratiche Filosofiche” della fiorentina Certaldo, “Albero Andronico” in Campidoglio a Roma, “Parole e Poesia” di Formigine a Modena, “S. Quasimodo” della Aletti e “Residenze Gregoriane” di Tivoli. Di recente è finalista ai premi “Città di Monza”, “O. Wilde” e al premio di filosofia “Le figure del Pensiero 2022”.

A una rondine

Rondinella, veloce ombra nera,

davvero felice sei tu

che voli al di sopra del mondo

meschino, ora sola, ora a stormo?

Davvero problemi non hai,

d’amicizia, di casa, di vita?

O pure lassù, fra gli uccelli,

nell’aria più libera, senza

pezzetti di male, non c’è

la gran pace sognata?

Potessi imitarti! Volare…

ma senza pensieri o ragione,

con dentro soltanto uno squarcio

di cielo azzurrino,

più vuoto che quello

spazzato dal vento di marzo;

sfrecciare nel sole, garrendo

di gioia, sparire,

tornare con te…!

Rita Arrabito Latina

Biografia

Rita Arrabito Latina è autrice di versi, racconti, recensioni e saggi critici. Per un cinquantennio ha conseguito numerosi successi e, molte volte, è stata ritenuta meritevole del “podio”. Temi preferiti: sentimenti ed affetti; introspezione; natura; religione; problematiche sociali; memoria.

Nello stile l’Autrice ricerca la musicalità del verso, l’incisività del contenuto, la chiarezza e correttezza della forma.

Numerose le sue pubblicazioni su riviste, giornali, antologie. Ininterrotta la produzione letteraria. Svariati gli inediti.

Opere edite:

“Dal tramonto al mattino”, Ediz. Carello, Catanzaro, 1982 (silloge di liriche premiate)

“Fiori di passiflora”, Tipolitografia “Centro Grafico Aretuseo”, Siracusa, 2006 (15 racconti)

“Percezioni tra sogno e memoria”, Iniziative culturali E.N.Te.L. – M.C.L. Massa Carrara, 2013 (1°premio - silloge di 14 poesie)

“Il volo di un gabbiano” (Libro-Agenda 2017) – Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia 2016

Ombra di Vulcano

Ombra di Vulcano

sorprendi,

sottendi

pensieri

sublimin_Ali.

È il cuore

a svegliarmi.

Fascicola

adesso e scuote.

DON(N)A-ONDA,

assonanza.

Perché possa rimanere

Àncora in questo letto

di (più)_ma vedo oltre

il buio, forse

lavagna astrale

da graffiare

da riempire.

Eruzione e Fondale

nel salto emotivo

ti Vivo.

Antonella Ballacchino

Biografia

Antonella Ballacchino, Medico Specialista in Otorinolaringoiatria, Audiologia e Foniatria.

Presente in numerose pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali.

Durante il suo percorso formativo universitario la passione letteraria si intreccia irrimediabilmente con la voglia di scrivere, pertanto fonda e dirige nel 2005 il primo giornale universitario “PRIMUM” per tre anni, inserendo per la prima volta una rubrica dedicata all’Arte e alle Lettere nel contesto di una rivista dedicata alla medicina.

Ha partecipato a diversi eventi culturali con diverse relazioni in connubio tra arte e medicina.

Ha pubblicato tre sillogi: Empatica Estesìa (2014), Luce (2018) e Fra_tt_ali (2021). Curatrice di una rubrica on line di cultura “Logos & Imago” all’interno del giornale Caltanissetta Live dal 2019.

A braccetto con la paura

Ho preso a braccetto la paura

lei insieme a me filava, forte e pura

sentivo la sua gonna sul mio fianco

nell’aria risuonava strano un canto...

Le ho detto: “Ecco, lo vedi, non ti scaccio

anzi, nera sorella, io ti abbraccio”.

Un tunnel lungo e scuro più d’inferno

davanti a me lei ha aperto, ed era inverno

nessuna luce al fondo, solo pareti

grigio cemento e, a un tratto, erano reti.

“Chiudi gli occhi - mi fa - Lasciati andare”.

Li ho chiusi e all’improvviso ho visto il mare

la spuma sugli scogli che zompava

un cormorano l’ali sue asciugava

un gozzo che lasciava la caletta

remava il pescatore senza fretta.

Le braccia mie ho allargato in faccia al sole

girando su me stessa, ed ero un fiore

picchi innevati, morbide colline

laghi, distese immense smeraldine

candida pratolina appena nata

respiro d’Universo ero tornata.

Lavatoio

Era il mio cuore annodato

saliva dal fondo il passato

premeva l’ansia alla gola

bloccava ogni fresca parola

riudito ho la nonna cantare

mentre era intenta a lavare

a mano, dentro un catino

del bagno nel lavandino...

“Perché canti, nonna?”, chiedevo curiosa

affiancando quell’ape operosa

“Ninìn, canto per non gridare

lavo, che è come pregare.”

Un bianco sapone ho afferrato

le mani nell’acqua tuffato

sciolto s’è dentro il catino

il buio del primo mattino

la maglietta stampata del cuore

tornata è all’antico splendore.

Ed ero alla gora con loro

le ave, le donne che in coro

con tonfi spessi e lunghe cantilene

battevano i panni, serene

sotto canicola o al gelo

a onorar della vita il mistero.

Il filo

Di Aracne figlia, siedo alla tela

parole intreccio, il foglio è vela

si snoda un filo pian piano

da dentro risale alla mano

sottile che, a tratti, ho paura

ma salda è la presa, sicura

scorre la penna da sola

né notte conosce, né aurora

batte il telaio al ritmo del cuore

segue la mente l’antico rumore

perle di pianto, gocce di rugiada

accade talvolta che il buio cada

uno strappo improvviso, distrutto è il lavoro

a brandelli ridotto l’amato tesoro

ma il filo raccolgo che penzola al vento

la testa rialzo, a tesser riprendo.

Margherita Bertella

Biografia

Margherita Bertella, nata e residente alla Spezia, laureata in Lettere Classiche, da anni coltiva la passione per la scrittura, partecipando a numerosi concorsi letterari e ottenendo importanti riconoscimenti. Sue poesie e racconti compaiono in numerose antologie.

Ha al suo attivo un volume di fiabe per l’infanzia “Piccolo mondo” (2001), la raccolta di racconti fantastici “A casa del diavolo e altri racconti” (Helicon 2003), il romanzo “Dovremmo farli incontrare” (APE 2008), la raccolta di novelle satiriche “Il principe brutto e altre storie pazze” (2011), la raccolta di racconti sull’ infanzia violata “Bambine” (APE 2012), il romanzo “A rischio di vita” (Ibiskos Risolo 2013), i volumi di poesie “Paesaggi d’anima” e “Il mito al femminile” (Helicon 2016); la raccolta di poesie e fotografie realizzata insieme a Fabio Terenzoni “Voltinversi” 2018; il volume di poesie “Taccuini d’emozione”, (Helicon 2019.)

Da otto anni, insieme con la collega Rosanna Ianni dirige alla Spezia un laboratorio di lettura e scrittura creativa: “L’Officina dello scrivere ad alta voce”, che svolge varie attività sul territorio, inoltre ha fatto parte di giurie letterarie, tra cui quella del Premio letterario Internazionale “Città di Sarzana”, della cui giuria ha fato parte per due anni.

Luna

Lieve

si appoggia la luna sul monte

Scivola

Come mani su fianchi di donna

Accarezza

Seguendo le curve che si inarcano e ondeggiano

Si specchia

nel lago che tende i suoi bracci

Trafigge

di luce le acque e quasi le tocca

Illude

la notte di ombre e di veli

Richiama

Gli amanti e i lupi ululanti

E dopo i suoi giochi beffardi e crudeli

È lì in alto che guarda

Ti segue

Ti scruta

E mentre tu cerchi un canto per lei

Svanisce

Si vela

Si oscura nel sole

MariAnCalopresti

Biografia

Maria Antonella Calopresti. Insegnante. Calabrese di nascita, lombarda di adozione.

Hotel Supramonte 2020

E quando scorgerai pallide vestigia

di una società odorante di malattia,

giunta alla fine di un vecchio tempo,

consunta da uno spettrale silenzio,

vinta da ineluttabili avvenimenti,

allora sarai giunto all’Hotel Supramonte

dell’anno di grazia Duemilaventi.

Aleggiano nell’aria come fantasmi,

spuntati d’incanto da una fitta nebbia,

avvoltoi e untori che volano bassi,

pesci esanimi trasportati da gelide correnti,

mezzo secolo di devastante progresso,

di orrori e di finzioni calcolate ad arte,

millenni di guerre e di sordi lamenti,

rinascite e rinascimenti sopraffatti

e durati lo spazio di un mattino,

vuoto culturale e inaudita ferocia,

padroni del vapore ottusi e prevaricatori,

spietati sicari di sommi ed alti ideali,

annientatori di una giusta fantasia al potere,

capipopolo privi di cultura interiore,

profeti di oscura e materiale economia,

educatori privi di religione e pregni di ideologia.

Gli arcangeli daranno fiato alle trombe,

saranno rivelati alle nostre pallide figure

i segreti di un infinito al di sopra di noi.

Caifa

Le trote d’allevamento non periscono mai,

si riproducono ratte, in un battibaleno,

proseguono sorde e cieche il loro cammino,

che suggella i loro giorni oscuri e uguali,

nel corso dei secoli e dei millenni della storia.

Si tuffano in balli carnali con ammalianti odalische,

accompagnati dalle cetre e dai flauti dei menestrelli

e dai racconti genuini e profondi dei cantastorie,

a cui sono mescolati e uniti i lacchè dell’umana fauna.

Sarà più melmoso uno stagno o un sinedrio luccicante?

Sarà più privo di pensiero un lupanare o una sala reale

in questa morta gora di profeti inascoltati?

Le trote d’allevamento ascoltano i profeti con saccenza

e sono del tutto sorde ai loro richiami di fede,

alla fine arroganti e ostinate si mostrano ignoranti

ai venti impetuosi e inesorabili della storia.

Pensano di campare mille anni,

forse di più,

non versano una lacrima al cospetto di una croce,

donano bacinelle d’acqua lorda ai potenti compiacenti

e continuano un cammino senza pensieri trascendenti.

E quando sono al cospetto dell’immenso universale,

lo accantonano colmi di superbia e di terrena ipocrisia,

avvinti come l’edera ad una insensibilità senza confini

e ad una ferocia cieca e senza ritegno alcuno.

Gian Luigi Caron

Biografia

Gian Luigi Caron è nato a Vercelli il 2 aprile 1957. Ha frequentato il Liceo Classico a Vercelli e si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Camerino (MC). Ha insegnato Discipline giuridiche ed economiche e Psicologia. Ha collaborato con i settimanali “La puntura” e “Il mio giornale” diretti da Giovanni Migliavacca negli anni 1987-1988. Ha pubblicato i libri “E che Dio ce la mandi buona!” nel 1998, “Oltre il volo delle farfalle” nel 1999, “Il ritorno degli Dei” nel 2008, “Il calcio e i favolosi anni ‘60” nel 2011, “Oceano 2012” nel 2013, “Il volo di Colombo” nel 2013, “Il nostro caro Angelo” nel 2014, “Gianna” nel 2015; “Da Gianna a Bocca di Rosa”, TraccePerLaMeta Edizioni, nel 2019, “Poesie giovanili”, TraccePerLaMeta Edizioni, nel 2020, “Solo per trenta denari...”, TraccePerLaMeta Edizioni, nel 2021.

Un profumo di nome “UOMO”

Un profumo forte, intenso,

il suo nome è “UOMO”.

Fragranza odorosa che ti porti addosso,

senza però,

durare più di un solo giorno.

Neppure è sempre uguale,

l’aroma cambia,

da ciò che trasmette la pelle.

La Donna lo sa,

per questo lo fissa nel pensiero.

Là dove arriva,

rende tutto leggero.

Spezia perfetta,

non ne puoi vivere senza.

Per questo si perde nell’aria

tornando poi,

struggente calore

non solo addosso,

ma superbamente al cuore,

sprigionando potente grazia,

soffusa forza e

appassionata intelligenza.

Sandra Carresi

Biografia

Sandra Carresi.

Sono fiorentina e scrivo racconti brevi e poesie dal 1999. Nel 1999 il primo elaborato Mi voglio raccontare.

Ho pubblicato sei libri, dal 2009 al 2015, di poesie che cito: Una donna in Autunno, Dalla vetrata incantata L’ombra dell’anima, Le ali del pensiero, I cristalli dell’alba, e l’ultimo al momento del 2015, Un cuore in organza.

Due libri di narrativa a quattro mani: Ritorno ad Ancona ed altre storie, un connubio con lo scrittore Lorenzo Spurio di Jesi e un libro per bambini con l’autore pugliese, Michele Desiderato: Battiti d’ali nel mondo delle favole, 14 storie per ragazzi di quarta e quinta elementare.

Mi onoro di far parte di Giurie inerenti a Concorsi a cui va tutta la mia stima, assieme alle Associazioni di cui faccio parte TraccePerlaMeta di cui sono anche socio fondatore e Autori&Amici di Marzia Carocci di cui sono socia e gli amici incontrati in questo mondo di cultura.

Temporali d’estate

Trafitta da fulmini roventi

la mia anima giace.

Gocce di grandine,

fra alberi di pini,

traforano vite disperate,

disseminate quà e là.

Che dire di un muto silenzio

che vibra in un pomeriggio d’estate

fra lampi e tuoni

che ammorbano l’aria.

Me ne sto seduta

fra fronde di alloro,

gocce di grandine negli occhi

oscurano il cielo.

Rosa Maria Chiarello

Biografia

Rosa Maria Chiarello nasce a Lercara Friddi (Pa) e vive a Palermo dove si laurea in Lettere Moderne, presso l’Università di Palermo. Nel 2016 pubblica la sua prima Silloge dal titolo “Cristalli di luce, nel 2019 pubblica la Silloge “Scorci di vita” con le Mezzelane Casa Editrice e “ L’Attesa”, poesie e racconti, con Edizioni Billeci; con il Convivio Editore nel 2021 pubblica la Silloge “Pensieri in movimento”. Le poesie di Rosa Maria Chiarello sono presenti sulla rivista on line Euterpe, sulla rivista Le Muse, sull’’Enciclopedia dei poeti contemporanei italiani- Aletti Editore, nell’Antologia di Poeti contemporanei siciliani – Vent’anni dopo il Duemila Vol. 1 curata da Josè Russotti con commento conclusivo di Tommaso Romano, sulla rivista Il Convivio, sul sito Reportpoesieonline, su diversi siti on line di poesia e in tantissime antologie. Diversi racconti di Rosa Maria Chiarello sono stati selezionati e pubblicati dalla Historica edizioni.

In tempo propizio

Voglio ascoltare oggi la tua voce

in questo tempo dono non accetto

perciò io salgo sui tuoi monti alti

da dove inizia a rotolare il tuono.

Fino allo spasimo tenderò

l’udito

reso ormai sordo da tanti clamori

inflitti dai dottori dalla legge

dei tuoi fedeli oggi Farisei.

Ti attenderò al limine dell’alba

acqua che sola può restituirmi

quella fiducia strappatami a brani.

E fra i silenzi, Tu fammi ascoltare

monito il grido che fu di Giovanni

e sarà bello ancora il mio sentiero.

Mario De Rosa

Biografia

Mario De Rosa, nato a Morano Calabro, vincitore di numerosi concorsi poetici anche nel dialetto del suo paese, ha diretto importanti premi letterari. Ideatore e realizzatore del premio internazionale “Morano Calabro Città d’arte”. È impegnato nella diffusione della poesia nelle scuole, nelle piazze e collabora con varie associazioni letterarie.

Percezioni asimmetriche

Percezioni asimmetriche.

Il pugnale si infrange come burro,

la rabbia diventa superbia,

la voce urla

ma non si sente nulla.

Parete che divide

è il mondo visto coi nostri occhi,

solo coi nostri.

Io straniero per voi

voi sconosciuti a me.

I nostri pensieri

distanti anni luce.

Come la luna dalla terra,

come te

che non sei più con me.

Percezioni asimmetriche

ma il dolore rimane

ed è come un sasso sul petto

che non lascia respirare.

Così, stasera

mi sento soffocare

senza il suono della tua voce.

Debora Di Pietra

Biografia

Debora Di Pietra è un’insegnante di lettere che vive e lavora a Caltanissetta. Si è laureata a Palermo in Lettere Classiche con 110/110 e la lode, discutendo una tesi sperimentale sul dialetto nisseno. Cultrice di dialettologia e linguistica, ha ottenuto dall’Università di Palermo una borsa di studio per ricerche sull’Atlante Linguistico della Sicilia. Pluriabilitata all’insegnamento delle materie letterarie, nel 2009 ha tenuto un laboratorio di scrittura presso la Facoltà di Lettere di Palermo. Collaboratrice dal 2008 al 2015 del Giornale di Sicilia, si è perfezionata con un master in Giornalismo patrocinato dalla Provincia Regionale di Caltanissetta. Appassionata di poesia e scrittura narrativa, ha ottenuto negli anni vari riconoscimenti come il premio “stampa” al II concorso nazionale “La vita in versi” di Cefalù (PA), secondo e terzo posto al premio letterario “Tre Ville” di Treviglio (BG) e finalista alla IX edizione del premio “Alda Merini” (2020). All’attivo due raccolte: “Percezioni asimmetriche” e “Dietro la tua porta”, disponibili in tutti gli store digitali.

La città delle donne

È questa la cittade

del tempo parallelo,

il posto dove cade

l’altra metà del cielo,

recondito universo,

opposto meridiano,

vestibolo diverso

in andito lontano,

dove l’ombra la luce,

dove la luce l’ombra,

che magica seduce

ed ogni dubbio sgombra,

dove il virile cuore

cercare si compiace

un alito d’amore,

anelito di pace.

Apparizione

Chi è mai la fanciulla corvina

che presso le case cammina?

È un cuore leggero che sale

la polvere dello stradale

dorata dall’ultimo raggio

di un tiepido vespro di maggio.

Natale

Non voglio la gloria e l’onore

che ognora lontani mi stanno,

né bramo quel fiore d’amore,

quel fiore foriero d’affanno.

Io cerco quel suono di piva

che udivo al ninnar della culla,

quel canto che azzurro saliva

nel soglio stellato del nulla.

Aria di primavera

Forse forse basterà

il tepore azzurro aprico

d’un bel giorno gennarino

che par proprio primavera

e bel tempo allor si spera

che disperda il cinerino

cielo gelido nemico

per sentir felicità.

Luciano Domenighini

Biografia

Luciano Domenighini è nato a Malegno (BS) nel 1952. Ottenuta la Maturità Classica si è laureato in Medicina e ha svolto la professione medica quale medico di Medicina Generale, attività che svolge tuttora. Negli anni universitari, a Parma, presso una radio locale ha condotto per quattro anni una rubrica radiofonica di musica operistica. Come poeta ha pubblicato quattro raccolte di poesie: “Liriche Esemplari “(2004), “Le belle lettere” (2017) e “Il giardino dei semplici” (2019), “Esercizi di rima”(2020); come critico letterario, un’antologia di profili critici di poeti emergenti ( “La lampada di Aladino”, 2014) e infine, in veste di traduttore, due raccolte di traduzioni dal francese (“Petite Anthologie”, 2015, “Saggio di traduzione”, 2016) e due dal latino(“ Poemi didascalici latini”, 2017 e “Poeti satirici latini”, 2019).

Divenir vegano

Al mondo umano

pare strano

divenir vegano!

Eppure non è certo ruffiano

non uccidere invano

per un mondo più sano.

È scritto nella Bibbia e anche nel Corano,

non uccidere è bontà che emano.

L’uomo è marrano

e vive nel suo pantano

inconsapevole che piano piano

renderà il pianeta malsano.

E come un gitano,

col suo pastrano

ed il suo incedere ridanciano,

ogni giorno compie più di un gesto insano.

Uccidere per divertimento come un talebano

Occhi che muoiono, invano.

Colori che si spengono, invano.

Vite che si spezzano, invano.

Corpi che si lacerano, invano.

Nessun arcano

Nella Natura l’uomo si rende nano,

pur nella sua posizione di mediano,

da una parte tutto distrugge mano a mano

invece di onorare la vita e divenir vegano

invece di perseguire la dignità e divenir vegano

invece di intendere la coscienza e divenir vegano

Fabrizio Fergnani

Biografia

10 righe di me…

Nasco nel non vicino 1969 e cresco alla ricerca di un continuo contatto con la Natura che si palesa in scorpacciate di documentari che poi piano piano formano l’Animalista che oggi si palesa in volontariato e attivismo come consigliere direttivo LAV e in alimentazione vegana. Il lavoro da impiegato a un certo punto mi fu stretto e a 44 anni, dopo un triennio universitario di grandi cambiamenti di vita, mi laureo in infermieristica in un concetto di completezza e completamento personale in cui occuparmi di esseri viventi umani durante l’attività professionale e di esseri viventi animali durante il tempo libero. Amo viaggiare e farmi trasportare dal confronto con le culture per poter allargare la mente e affrontare i miei limiti. Amo viaggiare e cercare di avvistare animali in Natura non potendo sopportare la vista della privazione della loro libertà, oltre che non poter tollerare la privazione di qualsiasi libertà anche umana. A volte accade che osservando il mondo mi assale un’emozione e allora mi succede di scrivere poesie.

Fabrizio Fergnani

Bologna

Seguaci di speranza

Noi che preferiamo

il verde della primavera

al rosso fuoco dell’estate,

il bocciolo del fiore

allo splendore del frutto,

i sentieri inesplorati

alle strade più battute.

Fioriamo raramente:

non rose nobili e profumate

ma preziosi cactus,

oasi di luce e colore

nel buio dell’esistenza.

Ci nutriamo di speranza,

cadiamo e ci rialziamo

e affrontiamo sconfitte e vittorie

come fossero ritorni e partenze.

E nel mezzo dell’inverno

che ammanta di incertezze

gli orizzonti del nostro futuro

siamo candidi bucaneve

-fragili e forti insieme-

che si dischiudono

per annunciare

l’arrivo di una nuova stagione.

Federica Franzetti

Biografia

Federica Franzetti è nata e vive ad Angera, paese sul lago Maggiore in provincia di Varese. Ama da sempre leggere e scrivere, attività che considera quasi vitali e terapeutiche. Insegnante alla Scuola Primaria e mamma di Linda e Mattia, è attiva nella promozione di iniziative culturali nel territorio.

Ha partecipato a vari concorsi letterari in tutta Italia ottenendo premi e segnalazioni.

Nel 2016 ha pubblicato con TraccePerLaMeta edizioni la sua prima raccolta di poesie dal titolo “Lo stupore del quotidiano” e nel 2021 la raccolta di filastrocche ispirate a Rodari “I bambini sono farfalle”, con illustrazioni di Rosanna Dell’Acqua.

Il sasso nello stagno

Sono un sasso nello stagno,

son felice, sai perché?

Perché volo senza penne

e poi nuoto senza pinne,

sto tra i fiori e poi... voilà!

un bambino da uno ad - anta

che con me vuole giocare

prima o poi mi troverà,

lui mi lancia, volo e rido,

poi mi tuffo e ride lui...

Questa sì è felicità!

NONONO!!!

Mi dice quello,

questa cosa non si fa.

È disordine!

È immorale!

Quel che è peggio, è...

...innaturale!!

Perché mai? - dice l’erbetta -

non lo vedi?

Lui ESISTE!

In natura certo c’è

perché i panni tu ti strappi

sulla soglia del tuo tempio?

Lui ESISTE, osserva bene,

ti saluta da lontano.

Ora ascolta ciò che dico.

Fai tacer la pia marmaglia

che ti segue in modo empio.

Lui ESISTE, alla tua faccia,

che tu voglia o tu non voglia”.

L’altro, tutto risentito,

reagisce con gran brio

applicando ciò che fanno

senza alcun tentennamento

i babbioni prepotenti

senza idee e senza senno,

quando quel cervello in pappa

non fornisce più argomenti:

invocan Dio.

“Zitta stupida sciacquetta!

Dio mi ha detto nell’orecchio

che se il sasso non fa il sasso

non sta fermo dentro al bosco

ma volare vuol nel cielo

e nuotare nello stagno

solo per il suo diletto

va fermato!

È un reietto!”

Sono un sasso nello stagno

chi mi tira dentro l’acqua

non lo fa perché è cattivo...

Mica mira alla tua testa,

dico a quella che, invidiosa perché volo, nuoto e rido

cordialmente mi detesta.

Mica mira alla tua chiappa,

a quell’ altra spiego bene,

quando dice che quel sasso,

che mai sta fermo e ordinato

con i ceppi e le catene

a una roccia va legato.

Lei si crede la più brava:

“volo meglio! Nuoto meglio!

Tutti i sassi io conosco!

Va dicendo a tutto il mondo.

Io la guardo quando volo

mentre lei, falsa ed illusa

cerca invano di fermarmi.

Poverina, starnazzando

come un’oca sbraita e corre,

agitando tutta l’aia:

“IO so tutto, IO son furba,

IO son brava! IO son bella!”

Non capisce che così

se le va di gran... fortuna

la nomea certo otterrà...

di ragliante somarella...!

Sono un sasso nello stagno,

amo ridere e scherzare,

amo il volo con il tuffo

amo scender negli abissi e vedere pesci nuovi,

c’è anche chi - ma che

bel gioco! - dopo il volo,

ma che bravo!

sa lanciarmi con maestria

non in basso e neanche in alto

ma sull’acqua mi fa fare,

di un acrobata il bel salto.

“Non va bene!!”

dice quella.

“Se tu salti a me mi offendi.

Dimenandoti così

la tua ombra porti e stendi

dappertutto e poi finisci

col coprire anche la mia

che bravina sta qua ferma.

Sin dal tempo di Noé

la mia ombra regolare

qual pesante pachiderma,

mai nei secoli si è mossa,

per paura di volare.

Dentro al buio immersa sto

meditando sulla vita,

e scavandomi la fossa.

Tu, bastardo, vieni qui

la tua ombra porta teco,

stai fermino, nun te move,

non volare, non saltare,

non nuotare e dei pesci

i colori non guardare!

Stai al buio qui con me

questo è il posto

che ci tocca

che ci è stato

dato in sorte

qui discorrer noi potremo

di disgrazie e della morte.”

Sono un sasso nello stagno

volo, nuoto, salto e rido,

a quel coro di perdenti

che si metton di traverso

per ragioni che non dicon

sol perché sono vigliacchi,

che è più grave di fetenti,

suggerisco di evitare

di attirare l’attenzione

perché così,

sentite ammè,

continuando con le lagne

esporrete a tutto il mondo

non le vostre qualità,

ma soltanto le magagne.

Sto per scrivere un finale

che per voi sarà un po’ duro.

In realtà sarà di ambrosia,

visto che, bastardi dentro,

a uno che il verbo morire

lo ha vissuto, mica è poco,

sulla pelle e non per dire,

con la forza dell’inganno,

dell’ipocrita morale,

dell’invidia e della spocchia

propria di chi poco vale,

meritate di sicuro

molto peggio, ma non voglio

rovinare il mio sollazzo,

mentre volo, salto e nuoto,

nuoto e rido, salto e canto

me la godo questa vita

he è tornata alfine a me

grazie anche a quelli che

sono AMICI per davvero.

A voi nobili creature

io prometto

eterno amore.

A voi falsi, moralisti,

invidiosi ed incapaci

che allorquando stavo male

gufavate di sicuro

dal profondo del cuor dico:

Iatevenne a fare in...!

ERNST30012022

Biografia

Ernesto Gallarato, segno zodiacale Gemelli ascendente Sagittario, ha quasi 62 anni, è nato a Santena da due genitori immigrati dalle Langhe piemontesi nella ridente cittadina del torinese nota per gli asparagi e per ospitare una bellissima Villa con annesso parco, che fu il luogo del cuore di Cavour, che infatti lì chiese di essere sepolto.

I suoi affetti, la scrittura, la pratica buddista e la militanza nel movimento LGBTQIA+ sono, nello stesso tempo le fondamenta sulle quali ha scelto di basare la sua esistenza ed i fari che illuminano il suo cammino nei momenti nei quali si sente smarrito.

Si è laureato in Giurisprudenza nel 1984 con una laurea in Diritto internazionale sul “Principio di autodeterminazione dei popoli”.

Tre sono i libri che Ernesto ha pubblicato sino ad ora: “In diretta dal cuore” (poesie), Aletti Editore; “Punti di vista-Tre racconti sulla saggezza della fantasia” (racconti allegorici), TPLM Editore; “Abbiamo le ali – Tre racconti sulla potenza della vita” (racconti allegorici), TPLM Editore.

Minoredda che munnia

In messu campu,

isterrida,

a brachil’ in sussu,

chin sor brazzos a capitha,

pompio su chelu

abbabbalocada.

Mi perdo

in sos chirror de su munnu.

Si mi bulluzat su coro,

si m’atturdit sa mente,

si mi suppuzat s’anima.

M’intenno

minoredda

che munnia.

Piccola piccola come un
pidocchio appena nato

In mezzo a un campo

distesa,

supina,

con le braccia a cuscino,

guardo il cielo

incantata.

Mi smarrisco

nelle distese infinite.

Mi si sconvolge il cuore,

mi si offusca la mente,

mi si strazia l’anima.

Mi sento

piccola piccola

come un pidocchio appena nato.

Mariuccia Gattu Soddu

Biografia

Mariuccia Gattu Soddu, insegnante elementare in pensione, è nata a Orune nel 1936 e risiede a Nuoro.

Dal 1993 si dedica alla letteratura in lingua sarda.

Ha partecipato ad alcuni concorsi letterari ottenendo vari premi.

Con TraccePerLaMeta ha pubblicato diverse opere in sardo con traduzione in italiano a fronte, che raccontano usi, costumi e leggende della Sardegna e in particolare del paese natio, Orune.

Dice la vita

Ricerca la forza

aggiungi la fiducia

sostieni l’anima

che crede in te,

guarda intorno

la luce del sole

illumina il giorno

in ogni momento,

ascolta il vento

soffia ed asciuga

gocce di rugiada

adagiate sui fiori,

scegli una strada

segui quel cammino

e se incontri sassi,

lentamente spostali

ma se son rose

raccoglile e donale

al tuo cuore.

Il tutto e il niente

Come lievi

trame di ricamo

impari fili legano

oblii di ombre

sospese ed attonite

schiudono brecce

all’opaco sole

che pallia luci.

Mesti aironi

fugano canti

e stridii

oltre i confini

di un mondo

incerto ed ignoto,

laddove esiste

il tutto e il niente.

Maria Luisa Luraghi

Biografia

Maria Luisa (Marisa) Luraghi, è nata a Legnano (MI) ma dal 1991 vive a Castellanza (Va).

Ha frequentato una scuola superiore tecnico/commerciale pur preferendo le materie letterarie.

L’attività lavorativa l’ha svolta nell'ambito della comunicazione/relazioni ed eventi esterni, presso un Ente Pubblico. Fin da piccola amava scrivere poesie.

Nel 2016 ha composto la sua prima raccolta poetica “Il Cofanetto di Velluto blu”, nel 2018 “Intrecci”, nel 2019 “Ricordi Imperfetti”, nel 2020 “Sussurri del cuore” e nel 2021 “Risveglio poetico, tutte edite da TraccePerLaMeta Edizioni.

Molti suoi libri e liriche nei Concorsi Nazionali ed Internazionali hanno avuto numerosi riconoscimenti con importanti premi.

Alla mattina

Sarò forse come una gallina

perché presto piace alzarmi alla mattina.

Godere dell’aria fresca e frizzantina,

lambire gli odori trasportati dal vento leggero leggero.

L’odor di pane, di biscotti

che pazienti soggiornano nei forni

si mescolano con quello del caffè o dei croissant dei bar.

Odo rumori che riecheggiano lontani,

la città si sveglia piano piano.

Vedo spuntare il chiarore del giorno e

del cielo il mutar del colore.

E dopo il buio lento della notte, sento

che quel nuovo bagliore, mi dà vigore.

Il mio spirito rinasce ogni mattina, per questo

è bello svegliarsi all’alba

come la gallina.

Maria Luisa Macaluso

Biografia

Maria Luisa Macaluso è nata a Caltanissetta, dove vive e lavora come insegnante. Da sempre coltiva la passione, oltre che per gli studi filosofici, per la poesia in lingua italiana e in vernacolo. Si interessa inoltre di storia, tradizioni e folklore locale. Ha pubblicato numerosi versi in antologie tematiche di autori vari, in particolare “Dedicato a… Poesie per ricordare” vol.14 2016.Ha conseguito riconoscimenti, menzioni e premi. Prima classificata Concorso Internazionale “Salvatore Quasimodo” 2017; prima classificata Concorso AEDE 2018. Presente nell’agenda poetica Tempo di poesia 2020 e 2021. Ha partecipato alla maratona poetica del 21 marzo 2021 indetta dal Comune di Caltanissetta, ha partecipato agli incontri di poesia “Paesaggi dell’anima” nel 2021, organizzati dal Comune di Caltanissetta.

Collabora con la casa editrice TraccePerLaMeta Edizioni, è socia dell'Associazione Culturale TraccePerLaMeta e con Enza Spagnolo ne è rappresentante delegata per la Sicilia

A Grazia Deledda

Come canne

in balia

d’un artigliato

in balia

d’un artigliato viro1

coronato

noi siam

in balia

del vento.

21 dicembre 2021

Emanuele Marcuccio

Nella vita bisogna che ci sia un cammino nell’anima, un cammino interiore, non necessariamente religioso; è necessario seguire quelle “tracce” che troviamo lungo il cammino per poter giungere alla meta tanto agognata, sono queste le “tracce per la meta”.2

Biografia

Emanuele Marcuccio (Palermo, 1974) per la poesia ha pubblicato Per una strada (2009), Anima di Poesia (2014), Visione (2016); per gli aforismi la raccolta Pensieri Minimi e Massime (2012); per il teatro il dramma in versi Ingólf Arnarson (2017), in un Prologo e cinque atti, di argomento storico-fantastico e di ambientazione islandese e medievale (IX sec. d.C.). Membro di giuria in concorsi letterari nazionali e internazionali dal 2012, tra cui la I Edizione del “Bilingue TraccePerLaMeta” (Milano). È presente in numerose antologie di autori vari tra cui «L’evoluzione delle forme poetiche. La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio (1990 – 2012)» (2012), a cura di Ninnj Di Stefano Busà e Antonio Spagnuolo. È ideatore e curatore del progetto poetico “Dipthycha” dove la forma del dittico poetico viene declinata “a due voci” di due diversi autori, del quale sono editi tre volumi antologici (2013; 2015; 2016) a scopo benefico.

Primavera di pace

In questa neonata primavera

voglio cantare e urlare

l’amore universale!

...e indossare

ventagli di stelle

e cullare emozioni d’avorio

in argentea luna!

Voglio ubriacarmi di luce!

Voglio fiammare ogni palpito d’animo!

Voglio disegnare le sfumature del sole!

Voglio abbracciare la cupola del cielo!

Voglio azzannare la vita!

…per poter finalmente

innaffiare i quotidiani rintocchi

con splendore

di puri sentimenti

e rinverdire

di ognuno gli intimi giardini!

Noi...

Vividi ed intensi ricordi...

Timido uncinetto

dolcemente ricamasti

brividi di seta e velluto

sul mio arcolaio...

Succulenti frutti di mare

al nostro banchetto battesimale

pianure e colline agostane

cornici di mattutine passioni

succose prelibatezze

all’ombra di filari in fiore

nettare di rosa pervinca

nel tuo calice traboccante...

Vividi ed intensi ricordi...

di ieri, di oggi e di domani!

Salima Martignoni

Biografia

Salima Martignoni, poetessa varesina, ha scritto oltre 300 liriche per lo più intimistiche. Nel 2000 ha pubblicato il libro di prosa poetica “Ieri oggi e domtani su pietra incisi”. Nel 2015 ha pubblicato la raccolta di poesie “Il tempo del travaglio” Kairos edizioni che ha presentato varie volte nella provincia, la prima a ottobre 2015 alla Feltrinelli con grande successo di pubblico e critica, oltre che presso “Casa Merini” a Milano. Ha organizzato numerosi eventi artistici in occasione della Giornata mondiale della Poesia il 31 marzo, con letture di poesie proprie e di altre autrici quali la Merini, la
Pozzi, la Achmatova ecc., in occasione della giornata contro la violenza sulle donne (25 novembre) sempre unendo la poesia ad altre forme d’arte. Il sul libro “Il tempo del travaglio” ha ottenuto il terzo posto ad un concorso di poesia intitolato ad Antonia Pozzi. È presente in varie antologie poetiche, fra cui ricordiamo “Poeti a Varese” edita da Nem edizioni anno 2014. Ama definirsi poetessa per passione.

Invocazione

Amore schiudi le ali

oltre i confini dell’immaginazione

vola.

Lucida follia

Accecante tenebra

Orgogliosa sottomissione

Angosciata speranza

Luci ed ombre

Tormenti gioiosi

incomprensibili.

Santi Moschella

Biografia

Santi Moschella nasce a S.Teresa di Riva (Messina) nel 1957. Conseguita la maturità nel locale Liceo-Ginnasio, partecipa alla vita politica e sociale (Polisportiva Jonica, Centro Sportivo Italiano, “Città insieme”, Teleradio Empire, “Fantasia”, e “C’era una volta un borgo marino”). Laureato in Giurisprudenza, dirige l’ufficio di Segreteria della Commissione Tributaria Provinciale di Varese. In questa città svolge attività di volontariato con le parrocchie di Masnago e Casbeno. Ha pubblicato, con TraccePerLaMeta Edizioni: “Così è se mi piace” (2016); con Armando Siciliano Editore i romanzi storici “Spesso ti dicono di non arrenderti” (2012) e “Mi chiamo Giuseppe, per gli amici Peppino” (2014). E infine “Gghiotta sturiusa di cuntu di mari di ventu” (2019).

Giordana

Lunghi capelli neri

Mani che segnano l’aria

come farfalle in volo,

occhi grandi e gioiosi

guardano le movenze

di una mamma bambina.

Balla Giordana

batti i tacchi

e caccia via il dolore

e la paura…

Le tue ali bianche e delicate

sono state strappate

da una quarantina di coltellate.

Tu come tante altre

Tu come tanti altri.

Come può finire questa violenza

insensata mi chiedo.

Bisogna agire adesso

cambiare questo mondo disonesto,

riportare in vita i valori

per essere uomini migliori.

Rifugio

La rabbia presto divenne tristezza

la luce fastidio per gli occhi,

la casa prigione,

il cibo consolazione,

la solitudine rifugio.

Vedevi mille mani

venirti incontro

ma per te erano solo

rami di alberi spogli.

Gridavi

senza voce

finché calda

e avvolgente

mano

riuscì a sollevarti.

Come la luna

Bianco luna

crescente e calante

segni il mio tempo,

a volte lo dimentico,

a volte mi perdo,

mi sembra di non

farcela adesso

ma di mollare non mi è

permesso.

Non si può rimandare,

deleterio aspettare.

Rosso, rosso, rossa

goccia che cade lenta

la tensione si allenta,

la luna è di nuovo crescente.

Deve di nuovo aspettare

quel corpo che vuole rallentare

la tua potente mente.

Rosa Padalino

Biografia

Rosa Padalino nasce a Milena, piccolo paese dell’entroterra siciliano, il 10 dicembre del 1983. La sua passione per la poesia nasce da bambina e cresce grazie al suo docente di italiano delle scuole medie.

Sotto la guida della sua amica poetessa Enza Spagnolo inizia a partecipare a seminari di poesia.

Si laurea in Ingegneria dell’automazione presso l’Università degli studi di Palermo, lavora per un breve periodo presso l’Università nell’ambito della ricerca pubblicando alcuni articoli scientifici.

Si trasferisce per un periodo di due anni a Firenze dove lavora come progettista hardware in un’azienda di controlli numerici, ritornata in Sicilia, lavora per alcuni anni in un’azienda locale, attualmente insegna come docente nella scuola secondaria di II grado.

Il fiore avvizzito e la farfalla colorata

La piccola farfalla colorata

di volare s’era stancata,

Si posò su un fiore avvizzito,

che da tempo era sbiadito.

Il fiore aprì i petali con tremore

e la farfalla stette nel suo calore.

Ma poi tornò a volare lontano

e il fiore appassì piano piano.

Un dì la farfalla rivide quel fiore

e gli donò ancora un poco d’amore.

Nessuno sa quando tornerà a volare,

ma intanto il fiore è tornato a cantare.

Liborio Rinaldi

Biografia

Liborio Rinaldi è nato a Intra sulla sponda piemontese del lago Maggiore.

S’è trasferito per motivi di lavoro verso la metà degli anni settanta del secolo scorso a Bodio Lomnago, sul lago di Varese, ove tutt’ora vive.

È capitano (della riserva) del genio carristi. S’è laureato in ingegneria in cinque anni al Politecnico di Milano in tempi non sospetti.

Dopo aver appreso il mestiere in IBM, ha fondato nel 1984 una ditta di Informatica sanitaria, ora affidata al figlio.

È stato Sindaco appassionato del Paese in cui vive dal 2004 al 2009.

Ama la montagna, che frequenta assiduamente con crescente fatica.

Ha realizzato in un cascinale settecentesco un singolare museo etnografico (Appenzeller Museum) raccogliendo negli anni oltre 65.000 “pezzi” di varia natura.

Scrive storie trasognate, per lo più ambientate negli amatissimi luoghi d’origine, e poesie, spesso ispirate dalle stesse storie.

Ama la vita.

Arrivò il tempo nel mondo dei giochi

Arrivò il tempo nel mondo dei giochi

e mi rubò gli occhi che videro soli sorgere

di notte e fuochi salire sui monti innevati

al chiaro di luna.

Dimmi dove hai nascosto i cavallucci marini,

i bottoni perlati, le bambole bionde

e le filastrocche dei matti.

Dimmi che fine ha fatto la mia fantasia volare sul tetto del mondo

mentre il dito scorreva sull’azzurro

girevole mappamondo di mari e oceani sognati.

Dimmi il senso di ciò che perdiamo sulle strade dei ricordi.

Concetta Maria Risplendente

Biografia

Concetta Maria Risplendente. Segnalata come voce poetica emergente in Storia della Letteratura del Secondo Novecento, vol. III, G. Miano Editore, Milano 2004, i suoi versi sono pubblicati in diverse antologie e riviste letterarie, tra le quali FOLIVM, Miscellanea di Scienze Umane, a cura dell’Accademia in Europa di Studi Superiori ARTECOM-onlus, n.VI.2, Roma 2004 e nella raccolta antologica delle liriche più rappresentative del II e IV “Premio Internazionale Salvatore Quasimodo”. È presente nella “Mappa sonora poetica mondiale” creata dalla scrittrice Giovanna Iorio e inserita nel sito web “Poetry Sound Library”. Nel giugno 2019, le è stato conferito il “Premio Città di New York”, e nel 2020 il “Premio Van Gogh”, Assegnati Esclusivamente per Merito da parte de La Chimera, Arte contemporanea, Lecce. Nel 2019 ha pubblicato per Dantebus l’ebook “Senza Confini”, e nel 2020 per La Zisa, la silloge “Parola(in) attesa”. Partecipa al Premio internazionale “Alda Merini” - IX edizione, Nuova Accademia dei Bronzi, ottenendo la Targa di merito con la poesia “Quel giorno”.

Esule

Presi ad andare

ché troppo pressava il destino.

Decisero altri per me,

prevaleva il bisogno mentre il cuore sanguinava.

Così scelsi solo il percorso

calcando quello più lungo e difficile

affinché s’attutissero i traumi del distacco

prima ancora che la lontananza divenisse cilicio.

Qui, strappa l’anima questa solitudine!

Vado esplorando inospitali lidi e terre senza nome

cercando di trovare in esse rifugio e ristoro.

Ho ferite che bruciano la pelle…

Solchi d’aratro profondi sulla terra nuda

nell’attesa che vi nascano le spighe.

Sarò il paziente incisore che utilizzando l’arte dell’agèmina

esalterà ogni traccia scavata dal dolore

saturandola di dolce speranza e teneri ricordi.

Carmelo Salvaggio

Biografia

Carmelo Salvaggio, nasce il 15/11/1949 a Canicattì (AG) Sicilia, risiede ad Aprilia (LT) Lazio, ormai dal lontano 1956. La sua formazione è umanistica e non pone limiti al desiderio di conoscenza.

Fin da ragazzo coltiva la passione dello scrivere, pubblicando sul mitico “Vittorioso” dove facevano gran mostra di sè le surreali vignette del grande Jacovitti. Attualmente collabora con l’associazione culturale ed artistica “L@ Nuov@ Mus@” di Aprilia (LT) di cui è presidente. Ha vinto diversi concorsi.

Autore di recensioni, prefazioni e postfazioni, spesso partecipa come giurato o presidente di giuria in varie manifestazioni ed è inserito in molte antologie ed in molte pagine informatiche.

Ha pubblicato oltre a varie sillogi due raccolte di poesie, la prima “NEL RIFLESSO DEI GIORNI” casa ed. EDITSANTORO, la seconda “VERSI DAL SILENZIO” casa ed. RUPE MUTEVOLE.

Richiesto da vari istituti scolastici, in collegamento con i docenti, collabora a corsi a progetto con la finalità di divulgare il messaggio culturale e poetico.

Poeta in cammino

Ti vedo poeta

quando sorpreso esplori

le tue pareti di spiga

sorridi all’ape che ti cerca

e le gocce

riaccendono i tuoi petali.

Ti sento

quando cerchi il silenzio

nell’aria che sfiora le tue ali,

riconosco la tua fragile forza

vivente

nell’universo che sei.

Nulla e tutto, a tua scelta.

Contrasti

Orchidea superba

e accanto pratoline da calpestare.

Una ricchezza ostentata

una umiltà spenta

e dentro la stessa anima,

sogni ugualmente arditi

soffocati in un abito grigio

che l’arcobaleno non ha colorato.

La mente che oltrepassa l’ignoto,

i pensieri che si fermano sul ciglio,

tutti, allo stesso modo, dell’uomo

ed il sole riscalda tutti.

Cibo, frenesie, apatie…

morire di troppo,

morire di niente.

Soli

Soli,

come il tempo dal quale fuggiamo,

come una musica sorda,

un quadro ammuffito,

un’ombra senza padrone.

Soli,

più soli della solitudine.

Più vecchi, perché abbandonati,

più malati, perché quasi in colpa,

più invalidi, più violenti,

di tutto più

perché la carità dell’uomo

è un’etichetta

ad incasellare problemi.

Odissea

L’umanità viaggia in burrasca

tra le ire e gli umori di dei e semidei

viviamo con Omero

ed una schiera di cantori ciechi.

Le avventure si raccontano

con teatralità che fa spettacolo,

articoli e fotografie in un poema antico

e nel futuro solo frammenti

da studiare a scuola.

Biografia

Benedetta Sarrica, nata a Castelbuono (Pa), vive dal 1954 a Busto Arsizio (Va) dove ha esercitato per quasi 50 anni la professione di Consulente del Lavoro.

Pubblicazioni:

Italia, una nazione da ritrovare

Se l’uomo tornasse alla sua genesi

troverebbe cuori specchiati

in acque trasparenti a progettare

la vita ahimè smarrita in sete di potere.

Echi dal mondo raggelano

grame esistenze

polvere di terre malsane

sul ventre di donna

che affama, uccide, dimentica

urla di bimbi gestanti il futuro.

Se l’uomo tornasse alla sua genesi

berrebbe dal calice divino

spanderebbe luce

non più stinta su volti in ombra.

Oh povera amica mia!

Che tanto hai patito

in secoli trascorsi

sgorgano pensieri divergenti

gesta eroiche

lotte in rigagnoli di sangue.

Patire

un verbo mai scomparso

illumina mappe

territori contesi.

Se l’uomo tornasse alla sua genesi

fermasse bramosie egoismi laceranti

viscere ancestrali

godrebbe una Nazione

che merita il nome Italia!

Elena Saviano

Biografia

Prof. Elena Saviano, docente presso I.C.S. di Palermo.

Pubblicazioni:

Narrativa: Tu c’eri, Reggio Calabria 2010; Saggi: Ruoli professionali, potere e strategie comunicative in carcere in Scuola e Carcere, Franco Angeli, Milano 2001; Il teatro come terapia pedagogica in Dal buio alla fantasia, L’Epos, Palermo 1999;

Poesie: Profumo di liquirizia, Armenio editore, Brolo (Me) 2021; Voglia di Memorie, Pungitopo, Messina 2013; Incontri, Pungitopo, Messina 2007; Apis, Pungitopo, Messina 2005; Partenze-Arrivi, Serarcangeli, Roma 2003; Trasparenze smeraldine, Thule, Palermo 2003; Un cielo che non c’è, Federico, Palermo 2000.

Inserita in antologie. Pluripremiata. Benemerenza civica Provincia reg.le di Palermo 2012. Premio Cultura Solunto International Award 2020 Palermo. Ideatrice dal 2013 dell’agenda poetica “Tempo di poesia”, regist. alla C.C.A.A. di Palermo.

Come uno scrigno prezioso

Ho incorniciato ricordi alle pareti

inanellato perle di lacrime e risate

giorni di lucida realtà e spicchi di sole

notti di sogni spezzati e cristalli di luna.

Ho cucito toppe sulla strada della vita

il mare e l’amare mi hanno confortata

e ora il tempo è una giostra colorata

in cui nuvole di pensieri si addensano

per poi sfogarsi in pioggia di rimpianti...

ma asciugherò ogni lacrima ai venti

degli anni in divenire, facendo tesoro

di errori e dolore, di successi e amore

come uno scrigno prezioso dal quale

attingere a piene mani forza e ardore.

Tania Scavolini

Biografia

Tania Scavolini, dal 2009 al 2012 è stata redattrice in un sito di poesia. È risultata in diversi concorsi finalista e ricevuto vari premi, tra cui nel 2016 Premio speciale per la musicalità del verso “Una perla per l’oceano”; nel 2017 Premio Speciale del Presidente di Giuria Libri Editi Poesia e Narrativa Antonia Pozzi TraccePerLaMeta per il libro “Riflessi in volo” ed. CTL; nel 2018 con il brano “Una delle tante” Menzione d’onore Premio Internazionale “Per troppa vita che ho nel sangue” sez. narrativa; nel 2019 menzione d’onore per il libro “Urla dal silenzio” ed. CTL Libri Editi Poesia Premio Nazionale Poesia “L’Arte in Versi” e Premio di Merito per la favola “Il discorso di Don Cedro” al Premio internazionale “Ponte Vecchio”. Nel 2015 la silloge “Ali di lieve battito”, inserita nell’Antologia “Melancholy Collection” ed. Rupe Mutevole, è stata presentata alla Fiera del libro di Francoforte. Nel 2017 e nel 2018 è stata membro di giuria ai concorsi di poesia Amoroma, lingua italiana e dialettale. Ha pubblicato cinque libri di poesie: 2010 “Squarci di cielo”; 2011 “Mare e Terra”; 2012 “Diario di un’assenza” ed. ilmiolibro.it, 2016 “Riflessi in volo”; 2017 “Urla dal silenzio” ed. CTL Editore Livorno.

“Profumo etereo dell’esistere”

Salgo scalini

bianco calce

e strappo

dall’anima e dagli occhi

la ragnatela di ruggine,

la solitudine delle mie

dieci dita a stringere.

Ai margini

nei più alti scaffali del vento

indugia in quest’ossimoro

di grigio ceruleo

la congettura d’un temporale.

Sulla giostra della vita, tu

bosco che galleggia

profumo etereo dell’esistere

che pesa un milligrammo,

il tramonto che desidero

in quel momento,

il cristallo di sale

portato dalla voce di un’onda

mentre calpesto la neve di un Natale.

Tu, acquarello a divenir materia

taciuto filo d’incantesimo

nel pudore d’un grembo.

L’invisibile stare insieme

spazio temporale d’amore

nelle tracce a percorrere

silenzi d’archi.

Capovolgo una rosa

ne leggo il profumo

aggrappato alle tue vele,

opalescenti trasparenze.

Mauro Scremin

Biografia

Mauro Scremin è nato a Belluno nel 1961, dove ha vissuto sino alla fine degli anni ‘90, quando si è trasferito in Germania per lavoro e ove tuttora risiede.

Da sempre accanito lettore, lo scrivere è stato a lungo solo qualcosa di sporadico sino a che la poesia ha cominciato “a guidare” la sua penna. Pubblica in siti letterari e partecipa diversi concorsi.

Al gelo

Uomo della Strada

sei fatto della stessa

materia di cui sono fatti i sogni

Cammini

guardi

e non vedi

Un palazzo

è crollato

davanti a te,

una lacrima

è scesa sul tuo viso

ma tu continui

a camminare,

guardi

e non vedi,

le lacrime scorrono

copiose dai tuoi occhi

ma tu non piangi

dici che è per il freddo

Un bambino

ti chiede perché

e tu lo accarezzi,

l’abbracci

Ti chiede

Dov’è la mia mamma?

Lo prendi per mano

e non rispondi.

Adesso siete in due

a camminare,

a non fermarvi.

Hai cercato invano

la tua casa

che non c’è più.

Continui a camminare

e sai che la tua casa è il mondo.

Il bambino non piange più.

Gli hai stretto la mano

e sorride,

sorride

perché sa

che c’è un mondo migliore.

Ti fermi e guardi il sole

al tramonto.

Il bambino adesso

dorme

e tu continui

a sognare,

a sognare

un’alba migliore.

Continuano a crollare

i palazzi

e le strade sono

massi di pietre,

ma tu cammini

e continui

ad attraversare

strade e ponti,

aiuti il bambino

a salire sui ponti,

ad abbandonare la strada.

Lui sale con te

e non cerca più la sua mamma,

continua a salire

a salire sempre più su,

ad attendere un’alba

che non ci sarà più,

un sole che non sorge,

che non sorgerà più per te.

Marisa Sedita

Biografia

Marisa Sedita. Giornalista pubblicista, iscritta all’Ordine Nazionale dei Giornalisti italiani. Docente di Italiano Latino e Greco, Preside e Dirigente Scolastica nei Licei. Presidente della Dante Alighieri di Caltanissetta. Numerose le pubblicazioni tra cui: “Sabucina. Studio sulla zona archeologica di Caltanissetta” (1° Premio Archeologia, Storia e Geografia antica 1981 del Ministero dei Beni CC.AA., assegnato dall’Accademia Nazionale dei Lincei e conferito dal Presidente della Repubblica), "Michele Tripisciano", in collaborazione con Francesco Gallo; "Dal Gela al Salso – Itinerari archeologici". Premio Speciale della Giuria ASCAMES (Associazione Siciliana Cultura, Arte Musica e Spettacolo) 1999, premio Nisseni nel Mondo 31 Maggio 2017 Alla Cultura, ricerca ed Università. Medaglia d’oro della Dante Alighieri per la cultura italiana nel mondo. Medaglia d’oro dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti Italiani, Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana.

Papaveri rossi

Nella zanella di fronte casa mia

l’angolo del muro che protegge

i campi, dalla la polverosa via.

c’è un cespuglio dove nel mezzo

cresce un lungo secco stelo.

Pruriginosa è la sua peluria.

Al vertice troneggia un bel bocciolo

che stringe forte al cuore il rosso fiore, ma lui ribelle uscire vuole.

Il papavero rosso, spinge, spinge,

vuole emergere e sorridere alla vita per stendere i rossi petali al caldo sole.

È un semplice fiore, che

non si erge agli onori degli altari, di feste e cerimonie.

Ma porta luce, colore, gioia e allegria, grida gioconde,

di vocianti bimbi si circonda.

I bambini il muro hanno scavalcato

e corono allegri nel campo di grano.

Il grano, di rossi papaveri è punteggiato.

Papavero felicità del mondo.

Anna Sodi

26 aprile 2022

Biografia

Anna Sodi, fiorentina, ama la lettura e la scrittura.

Affida le sue riflessioni sulla società e sui suoi affetti più cari al web con lo pseudonimo di Anna Sod.

È molto stimata e ammirata per la pacatezza con cui riesce ad esprimere sentimenti e convinzioni profonde.

La grande vetrata

Minuscola baia a picco sul mare

affollata da foglie che volano alte,

farfalle, spazzate dal vento.

Dall’alto la luna piena

è faro nel cielo.

Sinfonici fiati e turbinio della sabbia

fanno serrare gli occhi

mentre sale il profumo del sale.

Vola anche la spuma bianca

d’impetuose onde verso il cielo

senza regole scritte...

frustate e improvvisi botti

e lunghi silenzi.

Forze sovrane

mostrano i muscoli nell’eterna battaglia

della vita

e io osservo

con grande rispetto dietro la grande

vetrata.

Carlo Sorgia

Biografia

Carlo Sorgia nasce a Cagliari, classe 1949. Dirigente, pensionato, presso una banca estera scrive e pubblica poesie(quattro raccolte negli anni dal 2012 al 2018, ediz. Urso) e narrativa. A Cavallo della Vita ed Booksprint- romanzo autobiografico, Il Sangue è solo un Liquido? Storia di una famiglia ritrovata ed. La Riflessione (2014), Delitto a Bosa ed. Di Buono editore (2016), Tutta colpa della luna ed. LFA Publisher(2018). Fa parte di commissioni letterarie in qualità di giurato.

Il suo blog: www.carlosorgia49.weebly.com.

Angera

Dedicata a Anna Maria, Alberto, Paola, Maria, Gabriella

Seduta su una panchina

alle sponde del lago

respiro sogni

accarezzati dal vento

in un fermo immagine da cartolina.

L’acqua del lago

traccia pensieri

non scritti

tra lo sciabordare delle onde

chete

diverse dalle creste

spumose del mare.

Una breve pausa

attraversata dal silenzio

nel chiacchiericcio della vita.

Un piacevole adagio

nel ritmo a volte stonato del tempo.

Gli sguardi intenti

a mettere a fuoco

l’ingenuo stupore

di ritrovarsi.

Enza Spagnolo

Biografia

Enza Spagnolo, torinese di nascita, vive e lavora a Caltanissetta, laureata in Lettere Moderne presso l’Università di Palermo, insegna Storia e Letteratura Italiana.

Superato il concorso a cattedra, ha lavorato in diversi Istituti di istruzione Superiore e nel 2011 è stata trasferita all’ITET “Mario Rapisardi-Da Vinci” dove tutt’ora lavora con entusiasmo e impegno, dedicandosi ad attività didattiche e culturali.

Ha pubblicato diverse poesie su riviste e antologie; selezionata al Concorso LIBRI DI -VERSI IN DIVERSI LIBRI VII edizione 2017-2018 in memoria del poeta Corrado Carbè, ha pubblicato con la casa editrice Francesco Urso la sua silloge dal titolo” Essenze di Sicilia”; selezionata al Concorso LIBRI DI -VERSI IN DIVERSI LIBRI VIII edizione 2018-2019 in memoria della poetessa Maria Pia Vido, ha pubblicato una nuova silloge dal titolo” Dentro il tempo in questo istante”.

La sua ultima produzione poetica” Racconto di un tempo senza tempo”, è stata selezionata e premiata al Concorso LIBRI DI -VERSI IN DIVERSI LIBRI X edizione in memoria di Giovanni Armone, ottenendo il secondo posto su più di quaranta opere italiane e straniere.

Nel corso degli anni ha ricevuto menzioni di merito in molti concorsi; ha pubblicato alcune poesie nell’Agenda “Tempo di Poesia 2022” a cura di Elena Saviano.

Ha ideato e moderato una serie di incontri dal titolo I Paesaggi dell’anima all’interno del palinsesto dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Caltanissetta nell’anno 2020/2021.

Ha curato l’antologia “Paesaggi dell’anima” pubblicata da TraccePerLaMeta Edizioni. Collabora con la casa editrice TraccePerLaMeta Edizioni, è socia dell'Associazione Culturale TraccePerLaMeta e con Maria Luisa Macaluso ne è rappresentante delegata per la Sicilia.

Il grido del mondo

Il grido del mondo

si leva a te o Signore.

Il pianto dei bambinisi ode,

come una lama

che trafigge l’anima.

Negli occhi innocenti

Siì riflette l’orrore

della guerra.

Quegli occhi impauriti,

privi di ogni

minima speranza.

Il grido del mondo

rimbomba in tutto

il Creato, ti chiama,

Ti chiede Misericordia,

salvezza,

pace.

Amen

Liliana Speziale

Biografia

Liliana Speziale nata a Milano il 13.3.71

Ho seguito studi di tipo umanistico, socioassistenziale.

Ho avuto varie esperienze lavorative, anche nel settore pubblico, tra cui la Casa Circondariale S. Vittore di Milano.

Ho prestato assistenza in alcuni centri socioeducativi.

Autrice del libro: “La Forza e il coraggio di vivere”, edito da Albatros nel 2011 con la postfazione di Carlotta Funari

(figlia di Gianfranco Funari).

Autrice del secondo libro con la casa editrice TraccePerLaMeta edito nel 2018, titolo “Gocce di speranza” - le voci dell’anima.

Come musica

Nell’eterno presente

del tempo senza tempo vivere è musica

per il mio cuore che vede in modo diverso.

I pensieri giusti

camminano da soli

e lasciano il segno

della donna che sono.

Nell’inconscio collettivo

il mondo respira

con me e più lentamente

all’unisono con i ritmi e le energie

del mio universo.

Non so perché mi accade.

Nei momenti di grazia

non sento fratture

perché ragione e sentimento

cantano insieme.

Il vaso di basilico

Nel pomeriggio

caldo e assolato

Marta

gioca tranquilla

il gioco infinito

di mamma e bambina.

Lungo il muro

bianco

di gelsomino

Tigrotto

avanza

lento e furtivo.

Ignora

il passero

guardingo

e le sue briciole sparse.

Evita

la mia carezza.

Si ferma

al vaso di basilico

e

beve

assetato

tutta

l’acqua

nel piattino rosso.

Anna Maria Folchini Stabile

Biografia

Anna Maria Folchini Stabile, milanese, attualmente vive tra la Brianza e il lago Maggiore con una gatta nera che si chiama Minù, e con suo marito, un distinto signore che sopporta entrambe pazientemente. Ha alle spalle una lunga carriera nel mondo della scuola e scrive poesie e racconti sui temi della vita quotidiana e della molteplicità dei sentimenti che percorrono l’esistere e mutano la visione della realtà. È membro di Giuria di alcuni concorsi letterari e il confronto con i sentimenti e le anime altrui le arricchisce lo spirito. È presidente dell’Associazione Culturale TraccePerLaMeta dal 2012.

Si schiude questo cielo

Si schiude questo cielo

-timidamente-

come le gemme che verdeggiano

su rami ancora spogli;

si aprono le nuvole

come corolle

liberando sprazzi di azzurro:

tarda ad arrivare la primavera

che pure arriverà

all’improvviso

-inaspettatamente-

cogliendo tutti di sorpresa.

Da tempo tace la mia voce

Da tempo tace la mia voce.

Ho scritto parole d’amore, a volte,

in passato,

ho parlato di bambini, di natura

di persone, di Dio…di mondo,

alla fine.

Ho ascoltato l’anima, raccolto i pensieri

traducendo in versi gioia, dolore, nostalgia.

E tuttavia, in anni come questi così pieni

di fatti, di rabbia e violenza

la voce si è spenta, la tensione spezzata;

anestetizzata, la mente non si appassiona,

non detta parole, non scrive poesie.

Perché di emozioni si nutre Poesia,

non di serena piatta armonia.

Paola Surano

Biografia

Paola Surano.

Sono nata a Busto Arsizio, dove ho svolto la professione di avvocato. Nel gennaio 2012 ho fondato, insieme ad altri quattro amici scrittori e poeti, l’associazione “TraccePerLaMeta”. Ho partecipato a vari concorsi di carattere nazionale, ottenendo lusinghieri riconoscimenti e da alcuni anni mi onoro di far parte della giuria del Premio di poesia “Sole d’autunno” di Busto Arsizio. Dal 2000 in poi ho pubblicato alcune sillogi: “Alla luce di un’unica stella”, Ibiskos Editrice; la raccolta di racconti e preghiere “Nell’anima/nel mondo” (Oceano Editore); “La vita, in sottofondo” ed. Ape Agostino Pensa di Terni e l’ultima nel 2013 (Libreria Editrice Urso di Avola) dal titolo “La rosa in scatola”, corredato dei disegni degli artisti Gabriele Castellani e Antonio De Blasi.

Sappi, amico mio...

Sappi, amico mio,

che il tuo dolore io sento

e forte si spande nel mio corpo

vaso d’argilla plasmato con cura

fragile ampolla di lacrime e dolori.

Sappi, amico mio, 

che ogni giorno mi vesto di coraggio

ma non sempre basta

A parare i colpi della vita.

Chi se n’è andato senza vivere

il buio dentro la notte prepotente

è andato in pace mettendo insieme

I suoi giorni di luce e di speranza

Buona s’è fatta la notte

e il giorno che segue assapora

troppo in fretta il suo tramonto

tra slanci cancellati alla speranza

e resiliente sogno che non vuol morire

Vado a tentoni e avanzo come cieca

in un mondo che non riconosco

ed urta i miei sospiri

li sfibra lentamente

e mentre un giorno se ne va

un altro arriva e tutti si cammina ciechi

e a tentoni sulla sempreverde follia.

Giusy Tolomeo

Biografia

Nata in Sicilia, appassionata di teologia e filosofia, amante della musica e dell’arte, Giusy Tolomeo studia anche pianoforte. Si è specializza in Fisiopatologia dell’età evolutiva e intraprende un lungo percorso di docente, durante il quale cura musical e mostre di Arte e Poesia. Per un certo periodo collabora con People Magazine e pubblica filastrocche presso la casa editrice Panini. Pubblica due romanzi: “Il giovane Siddharta” e “Dune” e la silloge “Davide e Betsabea” per la casa editrice Albatros, grazie alla quale è presente alle mostre internazionali di Francoforte e Londra. Per la seconda volta, nel maggio 2016, partecipa al Salone Internazionale del Libro di Torino con il diario poetico “Le stagioni di Atma” e la silloge “Dillo a te sola” editi da TraccePerLaMeta Edizioni. Successivamente è ancora presente al Salone Internazionale del Libro di Torino con la silloge “Abbracciarmi” e la raccolta di filastrocche “Quando i bambini sognano”, editi sempre da TraccePerLaMeta. Collabora per un certo periodo alla rivista online “Sguardi di Confine” e mette in scena un suo dramma dal titolo “ L’altra faccia della Luna” presso il teatro Sociale di Busto Arsizio, città dove vive e lavora.

Cosa lasciano i Poeti

Cosa lasciano i Poeti

quando si alzano

e se ne vanno?

Ci lasciano il cuore

dentro un mare di parole

e non muoiono mai...

Lasciano luce,

questi Poeti,

lasciano anche lacrime,

lacrime di vita

che passa nei loro fogli e,

quando se ne vanno,

lo fanno con un sorriso,

magari senza soffrire

perché il Poeta soffre

quando sfuggono le parole,

quando sfuggono i volti,

i luoghi...

Non soffre il Poeta,

ha già sofferto abbastanza

ed è solo per questo

che scrive poesie...

Carlo Zanutto

Biografia

Carlo Zanutto, nato a Tripoli, scrive poesie e racconti brevi dai tempi delle superiori.

Nel 2012 cede due testi a Fabio, leader dei Malibù, che diventano canzoni: “Chiederò” e “Pezzo di cuore”.

Ad inizio del 2013, con Beppe Borromeo, lavora alla realizzazione della prima raccolta di poesie, autoprodotta, dal titolo “la mia linea dei seieventicinque” suddivisa in quarti come una partita di Basket!

Nel settembre del 2015 pubblica per Irda edizioni, la raccolta “Parole su Parole” volume I.

A Maggio 2018 per A.V. Editoria pubblica “Parole su parole” volume II con prefazione di Luigi Cannillo.

Nel 2021 “Quello che so del Mare” per Tomarchio editore.

1 Mutamento grafico per metaplasmo del lemma “virus” di origine latina, a evocare in maniera più espressiva l’attuale pandemia di coronavirus Covid-19. [N.d.A.]

2 Ispirato dal nome dell’Associazione Culturale “TraccePerLaMeta” della quale sono socio. [N.d.A.]

RACCONTI

Al centro

«Allora? Ti butti o no? Non possiamo stare qui tutto il giorno.»

Le urla di Giorgio mi martellavano in testa aumentando a dismisura il mio terrore. Da quanto tempo ero lì, immobile con i piedi sul parapetto di pietra proprio al culmine dell’arco rosso slavato del ponticello antico sul fiume? Non avrei saputo dirlo. Forse erano solo un pugno di secondi, ma il tempo pareva essersi dilatato fino a far diventare ogni singolo istante qualcosa di prossimo all’eternità e, allo stesso modo, anche lo spazio che mi separava dal pelo dell’acqua sembrava essersi trasformato in un baratro senza fondo.

Perché mi ero lanciato in quella spacconata? Perché avevo detto che mi sarei tuffato da quel maledetto ponte? Non me lo ricordavo nemmeno più. Qualche giorno prima avevo visto dei ragazzi più grandi saltare nel fiume da lì come se fosse la cosa più naturale del mondo, così, ripassando per caso da quelle parti insieme a Claudia e Giorgio, dire che avrei fatto anche io lo stesso mi era parsa un’idea divertente. Dopotutto non sembrava per nulla difficile, quel tuffo, e probabilmente non lo era davvero anche se, dopo essermi sfilato la maglietta, i pantaloni e le scarpe ed essermi arrampicato in mutande sul parapetto, il ponte sembrava essere diventato mille volte più alto.

«Dai, andiamocene, tanto non si butterà mai. È solo un chiacchierone.» aveva concluso il mio amico.

L’acqua scorreva lenta e azzurrissima, il cielo sopra le nostre teste profumava d’estate in ogni riverbero e io, in quell’istante preciso, potei solo prendere atto di non avere più altra scelta se non volevo perdere completamente ogni briciolo di credibilità agli occhi dei miei amici, così inspirai a fondo e mi lanciai in avanti scalciando l’aria in modo scomposto.

Da lì in poi ricordo distintamente la sensazione inebriante del vuoto, un gridolino di Claudia, l’aria tiepida fra i miei capelli, una forte botta al basso ventre causata dall’impatto maldestro con la superficie dell’acqua, il mio corpo che si lasciava abbracciare dal fiume scendendo giù fino a toccare il fondo, i miei polmoni che provavano istintivamente a cercare aria proprio nel momento più sbagliato possibile e un senso asfissiante di panico che sembrava non finire mai e impediva ai miei muscoli qualsiasi movimento mentre il mio cuore che pareva lì lì per esplodere. Poi più niente.

Si dice che, quando stai per morire, tutta la vita ti scorra davanti come un film. Qualcun altro sostiene che in quel momento si veda una specie di luce in fondo a un tunnel che si avvicina sempre più. Io non ricordo niente di tutto questo. Per me è stato solo un buio totale a cui è seguito un inspiegabile senso di pace assoluta. Un senso di pace profondissimo all’interno del quale mi sono sorpreso a galleggiare per un tempo indefinibile, finché in lontananza ho sentito una voce sempre meno ovattata di donna urlare «È vivo! È vivo!», prima che ogni mia fibra venisse travolta da spasmi di tosse, brividi di freddo, nausea, affanno e confusione.

Mi hanno detto che sono stato fortunato. Mi hanno detto che, quando mi hanno tirato fuori dall’acqua, il mio battito cardiaco era completamente assente. Mi hanno detto che è praticamente un miracolo, il fatto che io sia sopravvissuto. Mi hanno detto che è come se fossi arrivato al centro esatto del ponte ad arco che separa questa vita da quello che c’è dopo e che, se avessi fatto anche solo mezzo passo in più, sarebbe stato impossibile riportarmi indietro. Io però di tutto questo non so nulla. So solo che, in questi ultimi anni, di tanto in tanto mi piace ritornare in questo luogo, camminare fino al centro del ponte e fermarmi a guardare l’acqua che continua a scorrere lenta e imperturbabile. Spesso, in questi momenti, mi capita di ripensare al senso di pace che ho provato mentre attorno a me tutto era buio. Altre volte penso a Claudia e Giorgio, di cui non ho notizie ormai da decenni, o a tutte le persone incontrate nel corso della mia vita, alle cose che ho fatto e alle piccole gioie che ho collezionato, e allora sono contento di essere stato riportato su questa sponda, in quel giorno lontanissimo. Le volte che preferisco però sono quello in cui non penso a niente e mi limito a fissare lo scorrere placido dell’acqua con la mente completamente sgombra.

Ormai tuffarsi sarebbe impensabile: non ho più l’età e il fiume, col passare degli anni, ha assunto un colore fra il marrone e il grigiastro tutt’altro che invitante. Anche il paesaggio circostante è cambiato completamente e solo questo ponte sembra essere sopravvissuto all’industrializzazione e al suo successivo declino, un po’ come io stesso ho l’impressione di essere l’unico superstite delle tante fasi che la mia vita ha attraversato da quel pomeriggio. Ma forse è anche per questo che mi fa sempre piacere tornare qui, appoggiare i palmi delle mani sul parapetto di pietra sempre più slavato, e abbandonarmi a ciò che questo luogo vuole suggerirmi. Alcune volte resto qui per ore e in altre occasioni solo per pochi istanti. Ogni volta però, appena prima di staccarmi dal parapetto, inspiro a fondo, riempiendo i polmoni fino a farli quasi scoppiare, e cerco di trattenere l’aria dentro di me il più a lungo possibile. Poi, quando la mia resistenza alla mancanza d’ossigeno inizia a vacillare, butto fuori tutta l’aria e mi incammino di nuovo verso la sponda da cui sono arrivato.

Roberto Bonfanti

Biografia

Roberto Bonfanti è nato ai margini della più profonda provincia lombarda in un sabato pomeriggio di fine giugno dell’anno in cui morì Piero Ciampi. Cresciuto dividendosi fra l’esigenza di raccontare storie, la passione per la musica e l’amore per la bicicletta, ha pubblicato finora cinque romanzi (“Tutto passa invano”, “L’uomo a pedali”, “In fondo ai suoi occhi”, “Suonando pezzi di vetro” e “Alice”), un progetto musicale (“Ogni sorso un ricordo”, realizzato con la collaborazione di Miky Marrocco) e una manciata di racconti sparsi per il web o su alcune antologie.

Per maggiori informazioni:
www.robertobonfanti.com

Oltre... il tempo, lo spazio, il momento

Cinzia aveva sempre avuto la consapevolezza di aver vissuto un’altra vita precedente a questa.

Ne ricordava alcuni particolari in maniera molto netta e precisa. Addirittura ne assaporava le gioie e i dispiaceri. Sapeva di essere stata sposata, anche felicemente, di essere stata madre e di aver avuto una grande passione per Rudy.

Lui era stato un compagno di scuola degli anni verdi, non se ne era innamorata subito, non era bellissimo, non era neanche stata chimica, ma grande intrigo per la sua testa, forse addirittura perfida. Di sicuro, l’unico personaggio maschile con l’inconsapevole potere di farla soffrire, a cavallo di due secoli.

Era stata la sua ragazzina per un mese, alla fine della scuola, e poi tutto finito. In seguito, aveva trovato un ottimo impiego, ricavandone molte soddisfazioni; conosciuto, di lì a poco, Gianni, se ne era innamorata, lo aveva sposato e successivamente era diventata madre.

Nella sua passerella di vita aveva avuto i soliti alti e bassi, compresa la salute, poi dopo quaranta anni, lo aveva incontrato di nuovo, aveva avuto uno scambio di chiacchiere attraverso la tecnologia e poi i discorsi si erano chiusi e limitati agli auguri natalizi e pasquali. Ne aveva sofferto, ma dalla donna sincera, corretta e diretta che era, in silenzio ne aveva conservato il ricordo. Una cosa però l’aveva promessa a se stessa: credeva nella reincarnazione, e se mai avesse dovuto rinascere, avrebbe saputo riconoscere in un’altra vita quella passione legata a tanta sofferenza mentale e se la sarebbe data a gambe se lo avesse saputo riconoscere. Una vita era tanta, due era da idioti.

Uscendo dall’Università Giada si guardò intorno. Era il suo primo giorno, aveva quasi vent’anni ed era felice. Si era iscritta a giornalismo. Con alcuni compagni e compagne del suo corso, si era subito affiatata, come era nella sua abitudine. Era figlia unica e in quella città ci studiava, ma non le apparteneva.

Aveva preso una stanza in affitto vicino all’Università in un appartamento grande dove c’erano altre ragazze ma non del suo corso. Era libera come l’aria, felice e intenzionata a studiare molto per arrivare presto alla conclusione.

Vicino all’Università c’era un grande giardino dove spesso si fermava a mangiare un panino per la colazione delle 13. Nonostante fosse Novembre, gli alberi avevano ancora qualche foglia giallo-verde, un bel vestito autunnale, illuminato da un tiepido sole.

Si trovava seduta su una panchina col panino, quando sentì una risata sghignazzante che la fece rabbrividire, si voltò e vide un gruppo di giovani con i libri sottobraccio: tre ragazze e due ragazzi. Dovevano essere più grandi e venivano dalla parte opposta della sua facoltà.

Giada sembrava incollata a quella panchina, cercava di mandare giù il panino e beveva quell’aranciata amara come se fosse veleno. Lo riconobbe. Forse fisicamente era leggermente diverso o almeno le parve, ma quello sguardo, quella voce e quella risata, facevano parte del suo bagaglio.

Una delle ragazze lo chiamò Marco e lui continuava a ridere piegato in due.

Giada, si alzò, buttò i resti del cibo e la lattina nel cestino vicino e se andò a testa alta con le spalle dritte.

Ecco la parte che le era piaciuta meno di Rudy era la sua “demenzialità” come la chiamava lui, quel modo di essere così fra il buffo, l’ironico, il sarcastico, l’arrogante, il simpatico, il perfido. Gli altri ridevano a crepapelle e lei invece aspettava che tornasse “normale”. Le piaceva quando era serio, quando ci poteva fare ragionamenti, quando le parlava della bellezza della natura, della caccia, della pesca e dell’aria. Le caratteristiche di un carattere sono molteplici, ma alla fine il risultato era sempre lo stesso: soffrire. Lui la faceva soffrire e forse non se ne accorgeva neppure, perché se ne fosse stato consapevole, allora, la sua perfidia sarebbe stata al culmine, eppure, sapeva anche essere dolcissimo. Ma questo accadeva raramente.

Lui vedeva il Mondo con troppa chiarezza e senza un filo di benevolenza, mentre bastava aggiungere un pizzico di partecipazione per avere più energia e non solo, avrebbe potuto vedere le verità sfuggenti nascoste dietro le apparenze.

Giada studiava molto, ma era soprattutto affascinata da un progetto che le avevano dato da sviluppare su un omicidio molto chiacchierato nella Provincia di Milano. Faceva continue ricerche in Biblioteca, col suo Professore, presso le Agenzie di Stampa, ed era pure brava, conosceva solo lo studio, ma alla festa grande nella facoltà di Legge non ci voleva rinunciare. L’aveva invitata il suo Professore, le cui conoscenze erano estese anche agli Avvocati della Facoltà vicina.

Era emozionante conoscerli, il Professor Giannuzzi l’avrebbe presentata ai colleghi di Giurisprudenza e Lei, forse, avrebbe avuto altro materiale su cui lavorare.

La sala era molto grande, tanta folla, studenti, insegnanti, tavoli, scrivanie, sedie, camerieri, e tanto cibo ben presentato su grandi vassoi e musica rock; fu proprio vicino al grande tavolo che lo vide: a bocca piena, altissimo, magro e con i suoi capelli neri ben curati. Istintivamente, si portò più distante, là dove poteva osservare senza essere vista. Se non era lui, era la sua fotocopia.

Giada tremava come una foglia, la pressione doveva essere alle stelle, gli occhi le si incrociavano, non riusciva a mettere a fuoco niente, dentro era tutta un’elettricità. Se un fulmine le fosse passato vicino, probabilmente si sarebbe bruciato lui, tanto era elettrica.

Quando era Cinzia, aveva giurato a se stessa che se mai fosse rinata e lo avesse, per caso, rivisto, se la sarebbe data a gambe levate, anzi avrebbe usato i pattini per correre di più ed ora …, lo stava guardando incantata semi nascosta da una tenda. Poi, un gruppo di ragazze allegramente se lo portarono via e lei rimase lì con le gambe molli.

Nessun uomo le aveva fatto questo effetto in questa vita.

Poi, vide nella Sala il Professor Giannuzzi da solo, forse la cercava…, questa le sembrò un’ottima occasione per tornare alla realtà.

Si divertì, mangiò, bevve, e si procurò un paio di appuntamenti con gente che la poteva aiutare nel suo progetto.

Quando arrivò all’uscita, una voce un po’ roca la fece sussultare e per l’emozione, inciampò contro una poltroncina:

-Ehi, ma io ti conosco...-

Giada, si sentì venire meno, ma ebbe il coraggio di voltarsi e di vederlo. Era proprio Marco, Rudy, o qualunque altro nome del passato o del futuro, ma sempre Lui.

Lei pensò: come fa a riconoscermi? Non è possibile! Non è una cosa vera!

Ma subito si riprese dietro le parole Marco:

-Ehi, si stavi mangiando un panino nel grande giardino l’altro giorno..., ti ho vista..., ma non sei della facoltà di Legge, vero?-

-No, faccio giornalismo, sono dalla parte opposta, certo che tu le ragazze le conosci proprio tutte e non ti sfugge niente...-

Dopo aver detto queste parole, si maledii tre volte. Le succedeva sempre così: quando gli parlava, si pentiva subito di averlo fatto: o si era aperta troppo con le parole, o vedeva quel suo sguardo bieco e severo che impermalito la rimproverava con gli occhi. Insomma era sempre tutta una sofferenza: lei faceva delle domande, lui le rispondeva a metà, mettendola in crisi con altre sue parole. Un conflitto.

Questa volta però lui stese la sua grande mano verso di Lei, le fece un bel sorriso e le disse:

-Mi chiamo Marco, sono al terzo anno di Giurisprudenza, suono e canto in una Band e conosco parecchia gente, diciamo..., tutta quella che c’è qui dentro, compreso i docenti e come vedi anche tu.-

Dentro di sé Giada sentì una voce:

-Non ci cascare Giada, Cinzia, o chiunque tu sia, fuggi, ti farà soffrire anche in questo secolo...,lo sai come fa, inizia sempre bene, con sorrisi, delicatezze, poi, lentamente si stanca, allenta l’attenzione, guarda altrove e si allontana... e tu, resti in compagnia della tua malinconia e dei tuoi ricordi...-

Giada pensò ai suoi studi, ai suoi progetti e sorrise malinconicamente, guardò il cielo, in quel momento di piombo, con grossi nuvoloni grigi, minacciosi e gonfi, dentro di sé pensò:

"Anche gli Dei sono nervosi, minacciano secchiate d’acqua sulla Terra.

Magari, in una prossima mia nuova vita sarò una Civetta, e se vedrò intorno a me un Gufo che mi guarderà serioso e di sbieco, saprò bene di chi si tratta, volerò..., mi nasconderò... fra qualche albero, cercherò aiuto... ma in questa... che cosa posso fare? Posso semplificarmi la vita usando un toccasana per la mia salute mentale, posso abbandonarmi all’intelligenza della folla, forse troverò gioie inaspettate..., posso rimanere in stretto contatto con il mio intuito e le mie antiche conoscenze, inseguire le miei ambizioni in campi dove il sole eleverà il mio spirito, sorprendermi nel sentirmi a casa anche in questa vita..., ma con tutto ciò riuscirò ad evadere dal mistero di questa passione?"

Con questi interrogativi nella testa, Giada si allontanò senza accorgersi che da lontano, un’alta figura la guardava camminare, incantato e sorridente...

Sandra Carresi

La falena e il falo’

Quando il bruco dal corpo esile si sviluppò in quella falena incolore, dalle ali allo stato larvale, anche la madre la guardò con compassione.

"Povera figlia mia, quanto sei brutta!" pensò. "Già noi, farfalle notturne, abbiamo colori smorzati e non possediamo la leggiadria dei lepidotteri diurni, ma queste povere ali informi… A ogni modo io sono la tua mamma e ti accudirò con amore".

I giorni passarono e venne il momento per tutte le farfalle della nidiata di sostentarsi da sole. Anche la piccola falena dalle ali informi imparò a uscire la sera in cerca di polline e nettare dei fiori e ritornare poi al nido la mattina presto, al levar del sole.

Le altre compagne la deridevano per il suo aspetto deforme, ma lei non si lamentava mai e nella sua umiltà rispondeva: «Se Dio Padre mi ha creato in questo modo, dovrà pur esserci un disegno divino che né io né voi possiamo conoscere».

Quando al mattino ritornava al nido e incrociava le farfalle diurne dai colori molto vivaci che si avviavano nei campi, le ammirava, ma non le invidiava, come al contrario facevano le altre falene.

L’unica cosa, di cui veramente sentisse la mancanza, era quel disco giallo nel cielo che emanava la luce calda, dalla quale avevano avuto origine tutti gli esseri viventi.

"Deve essere meraviglioso per le mie compagne diurne vedere il sole e scaldarsi con i suoi raggi" pensava. "Pazienza! Io sono nata falena e ho le stelle e la luna, anche se non sono così calde".

Una sera d’agosto, in cui se ne volava a zonzo in riva al mare, venne attratta da una luce rossiccia che proveniva dalla spiaggia poco lontano.

La falena si avvicinò incuriosita e vide con grande stupore un gruppo di ragazzi, seduti in cerchio intorno a un falò, che cantavano al suono di una chitarra.

Il loro canto gioioso si propagava nella notte e saliva in alto, fino a raggiungere l’immensità del cielo stellato, mentre la legna che ardeva emanava scintille che si spargevano sulla battigia e sull’acqua del mare, regalando riflessi d’oro.

La piccola falena si fermò a osservare rapita quello spettacolo magico e mormorò fra sé: «Ecco il mio sole!».

Commossa fino alle lacrime guardò le fiamme che si levavano al cielo e a un tratto le sembrò che queste la chiamassero: «Vieni da noi, piccola falena! Noi saremo la tua luce, il tuo sole».

La falena si avvicinò a queste sirene incantatrici e fu in quell’attimo che una scintilla la raggiunse e le bruciò le ali, facendola cadere tramortita sulla sabbia.

Ma l’angelo del Signore ebbe pietà di quella creatura umile e deforme che non aveva mai chiesto nulla, se non di vedere la luce del sole, allora la raccolse e la depose in un campo. Poi si strappò due lembi delle sue ali e con il suo respiro li saldò al dorso della falena.

Il mattino dopo, quando la piccola falena si svegliò, si trovò in un campo di grano maturo, tra papaveri e fiordalisi. Vide il sole alto nel cielo e sentì i suoi raggi che la scaldavano. Spalancò meglio gli occhi, per timore di sognare, poi si avvide delle altre farfalle diurne che la osservavano.

«Che ali meravigliose hai! E che colore!» le dissero in coro. «Un azzurro del genere non l’abbiamo mai visto».

Con immenso stupore, la falena guardò le sue ali, colore del cielo, che le aveva donato l’angelo del Signore e comprese di essere diventata una vera farfalla.

Allora alzò gli occhi al cielo e ringraziò il Signore per il grande dono e la nuova vita, poi si unì alle sue compagne diurne e insieme volarono nei campi a compiere il loro utile lavoro: trasportare polline da un fiore all’altro per l’impollinazione.

Rosanna Cavazzi

Biografia

Rosanna Cavazzi. Laureata in Scienze Biologiche all’Università Statale di Milano, ha insegnato fino a qualche anno fa Matematica e Scienze nella Scuola Secondaria di Primo Grado. Appassionata d’arte e di letteratura, dopo la pensione, si è dedicata alla scrittura, hobby coltivato fin da piccola, oltre all’amore per la natura e gli animali.

Ha pubblicato 11 libri: “C’era una volta – Piccole storie di uomini e animali”, “Favole per tutte le stagioni”, “Residenza delle azalee”, editi da Albatros – Roma; e ancora “L’albero di Giulia”, “La stagione dei sogni e delle rose”, “Angiolina – oltre l’amore”, “La perseveranza del ragno”, “Sarai sempre nel mio cuore”, “Ricordati di Villa Aurora”, “Miscellanea di Cuori”, tutti editi da TraccePerLaMeta Edizioni di Sesto Calende. Con le sue opere ha partecipato a vari concorsi nazionali e internazionali, ottenendo moltissimi premi e riconoscimenti.

Ricordi d’infanzia

Spesso mi porto indietro a quel tempo della mia infanzia quando, in paese, ci si riuniva a casa della nonna attorno al braciere di carbone schioppettante. Nelle sere d’inverno era bello ascoltare le storie che la nonna ci raccontava per farci stare tranquilli. A quei tempi la casa della nonna non era molto grande. Al primo piano, in uno stanzone, era ospitata la camera da letto da un lato e dall’altro, la stanza, fungeva da salotto. Il piano superiore ospitava una grande cucina e il bagno. Vi erano due cucine a legna, sistemate una accanto all’altra che ospitavano dei grandi pentoloni che si chiamavano “quarare” nelle quali la nonna cucinava le pietanze nei giorni di festa, giornalmente utilizzava una cucina a gas. Le pentole, tutte in alluminio, di cui conservo ancora qualche esemplare, erano appese al muro, come in esposizione e giornalmente venivano usate e lucidate. Curioso era il comò della nonna, alto con tanti cassetti e con sopra una specchiera che ospitava tutt’intorno le fotografie di tutta la famiglia, soprattutto degli zii e dei cugini lontani che erano dovuti emigrare a causa della carenza di posti di lavoro. Negli anni settanta, quando io ero ancora una bambina molti sono emigrati dal mio paese, il lavoro mancava e tutti andavano via soprattutto verso il Belgio e il nord Italia. La nonna aveva sette figli, quattro dei quali erano andati via, con le rispettive famiglie, e tre erano rimasti in paese. Papà, il più piccolo dei sette figli, era rimasto in paese e noi bambini spesso riempivano la casa della nonna. Quelli erano i tempi in cui, nel periodo estivo si giocava in strada con le amichette che abitavano nel quartiere, e d’inverno si stava attorno al braciere. Ricordo, ancora, le giocate a carte. La nonna sistemava “u circu” attorno al braciere dove veniva posto un plaid per riscaldarsi e sul quale veniva sistemata una tavola per poggiare le carte. Mio nonno era quello che perdeva sempre, la nonna si divertiva a prenderlo in giro e noi giù a ridere per tutto il tempo. E poi il nonno ci raccontava “u cuntu”. Erano storie realmente vissute dal nonno durante il periodo della guerra e il nonno di guerre ne aveva fatte due, sia la prima che la seconda guerra mondiale. Era stato insignito “ Cavaliere di Vittorio Veneto” e di questo ne andava orgoglioso. Ci raccontava delle sue esperienze e spesso finiva i racconti con una frase “ A guerra è na’ cosa troppu brutta si soffri u friddu e lu pitittu e si sta sempre sutta i barionetti, megliu ‘a paci”. La nonna era una donna abbastanza singolare. Portava dei capelli lunghissimi che ogni mattina intrecciava per poi girarli a tupè sulla nuca, i suoi abiti lunghi arrivavano alla caviglia ed anche d’estate, anche se di stoffe più leggere, avevano le maniche lunghe. I suoi vestiti erano sempre ampi così come i grembiuli che li coprivano. La nonna portava gli occhiali e d’inverno, per coprirsi dal freddo sul cappotto portava un ampio scialle che a volte metteva anche in testa. Non ha mai portato i tacchi ma solo scarpe basse tipo mocassino. Aveva un carattere molto forte anche se la malattia di papà l’ha minata parecchio al punto di averci perso la salute. Rivolgeva sempre una preghiera al Signore che la facesse morire prima di mio padre. E così fu, ma questa è un’altra storia. Durante il periodo natalizio la casa della nonna si riempiva di addobbi ma quello che mi è rimasto impresso nella mente è il presepe. Era costituito da un’unica capanna, esternamente colorata di celeste, l’aveva costruita il nonno con i ragazzi, quando lavorava all’Istituto Professionale da collaboratore.

All’interno venivano sistemati sulla paglia le statue di Maria, San Giuseppe e il Bambinello poggiato su una culla piccolissima costruita in legno. Sempre all’interno trovavano allocazione i Re Magi. A quei tempi era in uso nel mio paese la novena di Natale. Dal giorno della festa dell’Immacolata fino alla vigilia di Natale la banda del paese, ogni sera, andava in giro di casa in casa, laddove veniva invitata, e per questo pagata, per suonare i canti natalizi davanti al presepe. A dire il vero i canti natalizi erano ben pochi e spesso venivano suonate mazurche e polche o canzoni del repertorio siciliano e napoletano. Spesso succedeva, che le famiglie, ogni sera si riunissero attorno al presepe e, al suono di musica, ci si mettesse a ballare. Non era insolito che ciò succedesse anche a casa della nonna e per noi bambini era veramente uno spasso ballare con i grandi. Alla fine la nonna offriva a tutti vassoi di dolci natalizi e un buon bicchiere di vino. A proposito di dolci, al mio paese era in uso preparare i dolci di Natale in casa, i cosiddetti “ Buccellati” o meglio “cucciddata”. Ancora oggi io li preparo per i miei figli in occasione delle feste natalizie. Sono dei dolci di pasta frolla con ripieno di fichi secchi, mandorle, noci, cioccolata zuccata e cannella. Ma il dolce tipico del mio paese era il “buccellato” con il ripieno di mandorle sminuzzate e fatte cuocere con acqua e zucchero. Questo ripieno viene preparato qualche giorno prima e, una volta raffreddato, viene mescolato con cannella, cioccolata e zuccata, assicuro che è una delizia per il palato ed erano questi che la nonna offriva ai “musicanti” cosi venivano chiamati i componenti della banda musicale. Che gioia in quei giorni! A casa della nonna non mancava mai la “ gazzosa” una bevanda dolce al sapore di limone che offriva a noi bambini e nelle sere d’inverno ci cucinava l’uovo nel braciere ponendolo in mezzo alla cenere. Un’altra pietanza buona che la nonna cucinava era la pasta fresca con le lenticchie. Quelli erano sapori che non dimenticherò mai e che mi sono rimasti nell’anima. Quando si chiudevano le scuole, a fine anno scolastico, noi bambini andavamo a casa della nonna per comunicarle la nostra promozione e lei ci faceva sempre dei regali. Di solito erano soldi ma qualche volta erano vestiti, scarpe o oggettini in oro che ancora conservo nel ricordo di quei giorni e di quei momenti di serenità. D’estate si giocava con le bambine del quartiere. Ricordo con piacere la mia amica Tita, una bambina che abitava sotto casa della nonna, una bambina dolcissima che è stata anche mia compagna di classe per qualche anno, poi c’erano Lia a “ babba” e Lia “ a grossa”. Queste due bambine avevano lo stesso nome e noi bambine per distinguerle avevamo dato loro questi appellativi. “Babba” nel dialetto siciliano è colei che non ha una spiccata intelligenza spesso perchè affetta da qualche sindrome, e così era Lia “a babba” e per quello noi la difendevamo da tutti quei bambini che la volevano prendere in giro. Noi ci curavamo di Lei, l’aiutavamo a fare i compiti e l’avevamo inserita nel nostro gruppo. Era la nostra amica da proteggere. Lia “a grossa” invece era una bambina allegra, la chiamavamo così perchè da piccola era un po' paffutella. Oggi è una bellissima donna che ho ritrovato dopo averla persa di vista per tantissimi anni e vive in Canada. Tita, invece, è morta da qualche anno e quando l’ho saputo ho provato un grande dolore. Con Lei è andato via un grande affetto della mia infanzia ma rimangono nel cuore i ricordi di tutti i giorni passati insieme nel gioco e la spensieratezza. Tanti erano i nostri giochi: campana, ai quattro canti con la palla ma più di tutto mi piaceva ascoltare la nonna mentre chiacchierava con le sue amiche seduta davanti alla porta. Dovete sapere che un tempo nei paesi dell’entroterra siciliano era in uso sedersi davanti la porta che si trasformava in un salotto dove raccontare se stessi e spesso anche il pettegolezzo la faceva da padrone. Tutte le signore che abitavano in una strada si riunivano davanti ad una porta e si parlava del più e del meno, dei loro uomini, del raccolto. A mia nonna piaceva raccontare fatti di guerra vissuti da Lei ma soprattutto dal nonno, Mi incuriosivano queste storie, era come se io stessa, in quei momenti, rivivessi le imprese del nonno durante la guerra. Ancora oggi ne assaporo le vicende e mi rendo conto di quanto siano vani i conflitti fra uomini e fra le nazioni. Per le feste di paese, che coincidevano con l’estate, ci si riuniva a casa della nonna. Di solito c’erano anche gli zii che vivevano fuori e che in estate ritornavano in paese per trascorrere con i familiari le ferie estive. Quelli erano giorni in cui si facevano grandi tavolate ricche di ogni leccornia e per noi bambini era una grande festa. Spesso ci volevano diversi giorni di lavoro della mamma e delle zie che si davano da fare per preparare il miglior pranzo possibile. Oggi tutto è così lontano, ciò che rimane è la nostalgia per quei momenti di gioia e di serenità. La vita ti porta altrove, tante cose sono accadute, i nonni sono andati via, ormai da tempo, di loro restano i ricordi e il loro affetto impresso nel mio cuore.

Rosa Maria Chiarello

La magica mongolfiera

C’era una volta un vecchio artigiano che costruiva tanti oggetti speciali. In un giorno di vento, mentre era a testa in su, vide gli alberi muoversi come se danzassero e gli venne una idea.

In pochissimo tempo si nascose nel suo laboratorio e iniziò a creare tra stoffa, spago, corda e un pizzico di magia dei palloni enormi e colorati, cosi grandi che ci poteva salire dentro. Il vecchio artigiano diede loro un nome speciale: Mongolfiera.

Ogni mongolfiera aveva un ruolo preciso; alcune erano destinate a fare divertire i bambini, altre a fare volare gli adulti, ma tutte servivano per fare volare i sogni. Una mongolfiera però rimase in attesa di essere usata per qualcosa di speciale... era la più piccina, piena di tanti colori. Il vecchio artigiano diceva che sarebbe arrivato un momento speciale in cui sarebbe stato utile il suo volo. Ma il tempo passò e la piccola mongolfiera si addormentò sotto un grande albero e i suoi bei colori si erano quasi sbiaditi... Finché un giorno... arrivò un forte temporale e il vento la sollevò così forte che la piccola mongolfiera si svegliò! “Dove sono?”- disse spaventata, si guardò attorno e non vide nessuno. “Ho perso tutti i miei colori, quanto tempo ho dormito? Qui è tutto cambiato!”.

“Sì piccola mia”- rispose l’albero. “Le stagioni sono trascorse e molte di voi sono già volate via, manchi solo tu e sono certo che ti aspetteranno grandi avventure...”. “Grandi avventure” -fece eco la mongolfiera- “ma io dove devo andare, verso dove e poi i miei colori...?”.

“Ti aiuterò io a trovarli”- aggiunse una piccola vocina talmente piccola che sembrava venire da lontano lontano e lì vicino a lei c‘era una piccola farfallina... ”ti aiuterò io a volare e a trovare i tuoi colori”. Cosi in un bel giorno di primavera la piccola mongolfiera svegliò i suoi sacchi di sabbia e inizio a salire piano piano, il saggio albero la salutò e iniziava una nuova avventura. Cominciarono a volare lontano lontano nel cielo felici e più erano felici più salivano e il cappello della mongolfiera si colorava di azzurro.

La farfallina disse. “Ti sto colorando di azzurro come il cielo, come il mare, piano piano riconquisterai tutti gli altri colori”.

La piccola mongolfiera si guardò intorno e vide una grande distesa azzurra proprio sotto di loro, era il mare, si avvicinò piano piano all’acqua e vide un delfino. Giocò e si divertì colorandosi di giallo, e poi volando in alto sui boschi, si colorò di verde.

La mongolfiera disse alla farfallina: “Mi piace essere mongolfiera, posso volare in alto e vedere gli alberi e le foglie e i fiori che diventano sempre più colorati”. “Adesso mi manca il rosso del sole al tramonto”. “Il rosso dell’amore” -aggiunse la farfallina- “Dobbiamo cercare l’amore”.

Volarono sempre più in alto per cercare l’amore, poi stanche si appoggiarono ai piedi di un albero. Si svegliarono e sorprese videro un cagnolino vicino a loro e una ragazza con un ragazzo che si tenevano per mano. La mongolfiera diventò improvvisamente rossa e il suo cappello ritornò ad essere colorato.

La mongolfiera decise di rimanere con i due giovani che erano sempre più innamorati e un giorno accadde qualcosa di veramente speciale.

Il suo cappello divenne brillante e da esso uscì un bimbo bellissimo, il frutto di tutti i sogni della sua mamma e del suo papà.

Giorgia D’Amico

Biografia

Giorgia D’Amico, laureata in filosofia, ha fondato un asilo nel bosco nel cuore della città di Caltanissetta. In un periodo in cui i bambini sono stati segnati dalla distanza fisica e dalla mancanza di relazione fra i pari, Giorgia insieme alle sue socie ha deciso di dare una risposta alle richieste del territorio. I bambini del nido e dell’infanzia sono accolti in una struttura dotata di un ampio spazio esterno dove vengono svolte la gran parte di attività e laboratori a diretto contatto con la natura. Giorgia Amico per i suoi piccoli studenti inventa storie e spettacoli teatrali dove ognuno di loro diventa protagonista. “La mongolfiera” è un piccolo esempio del racconto scritto per i piccolissimi che impareranno ogni giorno a volare sempre più in alto.

L’uomo giusto

Di nuovo tornò in bagno. Ancora un tocco di mascara. Non era abituata a farlo, difficilmente si truccava. Ma quella era una sera speciale, così speciale che quasi non riusciva a credere che fosse vera. Nel piccolo angolo pranzo del suo appartamento, situato al secondo piano di una palazzina poco lontana dal centro, la tavola era già pronta, curata in ogni particolare: la tovaglia delle grandi occasioni, i bicchieri buoni disposti come da manuale, i piatti con il bordino d’oro, proprio quelli delle feste. Per le pietanze era andata sul sicuro, affidandosi alla massima che quando si hanno ospiti è meglio non osare ricette nuove, quindi lasagne e arrosto.

Chiuse gli occhi, eccitata e fremente. Difficile crederlo, difficile.

Anche cinque mesi prima le era parso difficile credere che il distinto signore che da qualche giorno sedeva solitario al tavolino della trattoria in cui lei spesso pranzava guardasse proprio lei, proprio a lei sorridesse. Gli occhi dell’uomo la osservavano con discrezione al di sopra della mascherina a cui il virus maledetto aveva obbligato il mondo. Sempre la giacca e la cravatta, sotto il giaccone di buon taglio. Era novembre, faceva freddo. Avvolti dall’intimo chiacchiericcio della trattoria e dal sentore di cucina, fu incredibilmente naturale passare dai distaccati sorrisi a qualche espressione formale e poi a parole più confidenziali, a momenti di vicinanza in cui lui le raccontò di essere stato trasferito da poco nella banca poco lontana dal municipio in cui lei lavorava da anni. Un giorno dopo l’altro, qualche giorno ancora e il suo sorriso, il suo atteggiamento avevano fatto germogliare la speranza che la vita potesse avere ancora in serbo qualcosa di piacevole per lei.

Come un uomo che potesse affettuosamente e saldamente stare al suo fianco.

Così quella speranza mite e testarda, da troppo tempo rimasta silente, riprese timidamente a respirare, soprattutto da quando, terminato in fretta il pranzo, - pranzo di lavoro a prezzo fisso, mezzo litro d’acqua e caffé, così lo definiva il cartello all’ingresso -, si incamminavano nella nebbia di novembre lungo la strada che portava al fiume. Vicini, per evitare le auto. E parlavano. Parlavano tanto. Si raccontavano Ma stranamente non di loro stessi, non del loro personale quotidiano. Parlavano della vita, di come percorrere le sue strade, di quanto un individuo debba stare eretto per sentirsi degno e coerente. Parlavano del perché dell’esistenza, delle risposte da cercare, del senso da attribuire al vivere, di quanto la centratura su se stessi e la limitatezza dei propri orizzonti renda mediocri. Nel languore di novembre, lungo la strada che portava al fiume, parlavano come si conoscessero da sempre. Come da sempre si cercassero affinché l’uno si ritrovasse nell’altro.

Solo una volta capitò che:

«Come mai non ti sei mai sposato?» «Non ho trovato la persona giusta. E tu?» «Forse non ci ho mai seriamente pensato o forse non ho trovato la persona giusta.»

Finora, avrebbe voluto aggiungere, ma tacque e tenne per sé quel tenero pensiero.

La persona giusta, l’uomo giusto. Affidabile, equilibrato, orientato alla sostanza e non all’apparenza. «La vita è un viaggio di cui non si conosce la meta, ma in cui bisogna credere» declamava lui con voce chiara e misurata «Sono i rapporti significativi quelli che contano. Niente chiacchiere e lo sguardo agli altri. Il mondo sarebbe migliore se ciascuno di noi pensasse un po’ di più agli altri.»

Nella carezza lieve della nebbia, nella complice intimità dei muri silenziosi e del fiume consapevole, lei lo ascoltava con la gola stretta dalla gioia. Quale dio le stava facendo quel dono? L’uomo giusto, quello a cui aggrapparsi, quello che ti sta vicino, che ti sostiene e che ti capisce. Lo aveva sognato per tutti quegli anni in cui, nonostante tutto, aveva continuato a vivere. Da sola.

Morto il padre, morta la madre, erano rimaste lei e la sorella minore di cui farsi carico e così era ingrigita per il fardello della responsabilità e per lo sforzo di soffocare i suoi bisogni.

Poi, a un tratto, a quarantun anni ormai maturi, finalmente l’uomo giusto, quello che aveva smesso di sognare e di aspettare.

E ora, questo sabato sera. Ripensò al sorriso con cui l’uomo giusto aveva accettato il suo invito.

Si guardò intorno: tutto in ordine. Abbandonò l’idea che un po’ di musica avrebbe reso l’ambiente più accogliente, si avvicinò al televisore e lo accese. Voleva sentire le notizie. Troppo grave e assurda la tragedia che stava vivendo quel popolo a est dell’Europa che d’un tratto si era ritrovato in guerra. E le immagini che scorrevano sullo schermo furono, come ogni volta, un pugno nello stomaco. Carri armati, edifici sventrati, famiglie in fuga, bambini inconsapevoli aggrappati a mani disperate, qualcuno con un pupazzo da accarezzare. Si toccava con mano il freddo e la paura. Che follia, diomio, che assurda, colpevole follia.

Andò nella piccola cucina e controllò la cottura delle lasagne, poi entrò nella cameretta. Lorenzo alzò verso di lei l’affilato visetto roseo e le rivolse il consueto sorriso spento.

Un sorriso troppo opaco per un bambino di quattro anni.

«Gioca pure ancora un po’. Poi vieni di là.»

Tornò in soggiorno, finalmente il suono del campanello e il cuore che si spezzettava, disperdendosi in ogni piega del corpo. Il suo sorriso nel vano della porta, un mazzo di fiori in una mano e una bottiglia di ottimo prosecco nell’altra.

Lei si sentiva dentro a una colata di cemento e pur tuttavia riusciva a muoversi, a dire le cose che vanno dette in quei frangenti. Anche lui pareva a suo agio, come chi finalmente giunge nel posto che sente suo. «Complimenti. È grazioso qui. Si vede che hai buon gusto.» E poi il sospiro lungo, il peso della tristezza quando il suo sguardo inquadrò le immagini sul televisore. Scosse la testa.

«Com’è possibile che oggi capitino certe cose? Com’è possibile questa violenza, questa sofferenza? Gente che adesso, in una sera come questa, deve tremare per l’allarme antiaereo, tremare per i suoi cari, per i suoi figli. E guarda, guarda quei poveri bambini… poveri bambini, così indifesi, così incolpevoli, ma li vedi i loro occhi? E noi siamo qua, senza poter far nulla. Quanto vorrei poter fare qualcosa.»

L’uomo guardava attento le immagini e avvertiva tutto il peso di quella tragedia. Si voltò verso di lei a cercare condivisione e fu allora che lo sguardo gli cadde su Lorenzo, da qualche attimo appoggiato silenzioso allo stipite della porta. Forse fu allora che si accorse dei tre piatti in tavola.

Lo sguardo dell’uomo giusto si fece interrogativo.

«Ah, hai anche un altro ospite…»

«Si chiama Lorenzo.»

«Figlio di qualche amica che aveva bisogno di un po’ di libertà?»

«No.»

«Allora è un tuo piccolo parente?»

Lei non rispose.

«Non sarà mica tuo…»

«No – e sorrise appena, con tenerezza – È figlio di mia sorella.»

«Ah… quindi lo ospiti. Non vive con te.»

«Vive qui. Questa è casa sua. Mia sorella non c’è più.»

Il viso dell’uomo, ancora in piedi tra il tavolo e il mobile a giorno su cui era appoggiato il televisore, si era irrigidito, qualcosa come un’ombra nello sguardo.

Lorenzo sempre fermo nel suo silenzio. L’uomo guardava il bambino.

«Una malattia? Un incidente?»

Un incidente, rispose lei, ma non gli disse che l’incidente sua sorella se l’era procurato da sola e che l’immagine del suo corpo giovane che abbracciava l’azzurro buttandosi dal grande ponte di ferro che tagliava il fiume Ticino le stava davanti agli occhi ogni giorno. Da quel lontano giorno.

Aveva 16 anni meno di lei sua sorella; tardivo, inatteso frutto dell’amore dei suoi genitori sposatisi molto giovani e che troppo presto se ne erano andati uno dopo l’altro, lasciando a lei quella sorella che da subito aveva dimostrato di non sapere chi fosse e dove cercarsi.

Lei si era impegnata con tutta se stessa, ma non ce l’aveva fatta contro le maligne seduzioni di cattive compagnie, droghe prese alla leggera, rave party e altre idiozie. Così al ritorno da uno di quei raduni di stupida, ingiustificabile follia da cui non era riuscita a tenerla lontana, la sorella scoprì di aspettare un figlio. Aveva vent’anni. Figlio della musica, del fumo, della notte o di chi altro. Lei non lo sapeva di chi fosse figlio e neppure le interessava.

Dieci mesi, oltre non ce l’aveva fatta a sopportare il bambino, i suoi pianti, le sue necessità.

Sono esigenti, i bambini. Non ti danno tregua.

E così, quando quella mattina i carabinieri entrarono nell’ufficio comunale chiedendo di lei, li ascoltò gelida, con davanti agli occhi l’esistenza smarrita di sua sorella che galleggiava sull’acqua azzurra e subito la folgorò il pensiero:«E il bambino? Dov’è il bambino?»

«Bambino? Non c’era nessun bambino.»

Allora lei lasciò tutto e corse a casa con il fiato rotto e lo trovò nel box di rete beige, solo e silenzioso, silenzioso fin d’allora, seduto sul tappetino di plastica colorata, a quadri componibili.

Era lì dal mattino, il sonaglino in mano. Lo prese in braccio, lo strinse a sé. Aveva da sempre una tristezza vecchia negli occhi, quel bambino.

Ma non raccontò nulla di tutto questo all’uomo che ancora la fissava irrigidito e perplesso.

«Vive sempre con te? Non ha altri parenti?»

«Vive con me.»

Qualche attimo di silenzio, la voce che si fa compassione e consiglio.

«Povero bambino. Volendo però ci sono istituti molto validi.»

«Nessuno valido come questa casa. La sua casa.» Disse lei con decisione, spontanea e diretta. «Ci sediamo a tavola? Vieni, Lorenzo.»

«Non finisci le lasagne? Non ti piacciono?»

«Ottime, semplicemente ho poco appetito.»

«Due fettine di arrosto?» Dorato e perfetto il suo arrosto, quella sera.

Composto e compìto, l’uomo aveva però perduto la sua naturalezza, la sua aperta cordialità. Pareva a disagio sulla sedia. Lo sguardo attento al televisore, dove si svolgeva il dramma dell’uomo contro l’uomo; a tratti lo sguardo rapido a Lorenzo e subito ritratto.

«Apriamo il tuo vino?»

L’uomo afferrò la bottiglia e l’aprì senza partecipazione.

«Solo una fettina di arrosto, grazie.»

«Non si possono bombardare le città, creare degli orfani, recidere gli affetti.» Lei tentò di arginare il silenzio che si andava facendo denso.

« Sì, troppo egoismo» convenne lui, il tono di voce equilibrato, i gesti sempre corretti. Aveva una signorilità innata, quell’uomo.

Il dessert consumato in fretta, nei piattini dai bordi dorati.

«Scusa, ma devo andare. Grazie per la serata.»

«Capisco» disse lei, porgendogli il giaccone appoggiato sul divano.

Intanto Lorenzo era sceso dalla sedia e si era avvicinato a lei. Che lo prese in braccio e lo strinse forte a sé.

«Lorenzo, saluta il signore che se ne va» e chiuse la porta alle spalle dell’uomo giusto che, percorsi a passi rapidi il pianerottolo, s’affossava nelle scale di grigio granito.

Rosanna Di Muccio

Biografia

Rosanna Di Muccio, nata nel 1950 in Molise, vive da sempre in provincia di Novara.

Laureata in pedagogia, è stata insegnante elementare e poi dirigente scolastico, gestendo scuole dalla materna alle superiori sempre nella provincia novarese.

Si è occupata di tematiche educative e di formazione del personale scolastico.

Due figli, un nipote, ama narrare la ricchezza della vita ordinaria.

Ha pubblicato: Alzato lo sguardo (rapido ritratto critico della scuola di oggi; 2010); Proposta di legge (romanzo-riflessione sul matrimonio; 2014); Ester e la pioggia che disfa le rose (2019); Un posto chiamato Paese (2022).

Diciotto metri

Sapete quanto dura un volo di 18 metri da uno scooter lanciato a 70 km orari? Tanto. Non so dire esattamente quanto, ma sono sicuro di quel dico: dura tanto. E lo so perché l’ho fatto quel volo ed è durato tutta la mia vita.

Non che sia lunghissima la mia vita: ho solo 18 anni! Un metro... due metri...tre metri... Li ho festeggiati ieri. C’erano tutti i miei amici. C’era Nicola. Lo chiamo fratè perché è come un fratello per me: c’è sempre. Se ti senti giù, lui arriva, ti apre una birra, ti dà uno strattone e ti prende un po’ in giro. E smonta la tua tristezza. È una di quelle persone che o le odi o le ami, perché non sa tenersi dentro quello che pensa: te lo deve dire, è più forte di lui. Mia madre dice che è “senza filtro”, ma io un po’ lo invidio, perché io invece sono timido. Alla mia festa è arrivato con una camicia hawaiana e i pantaloncini corti. A febbraio. Doveva pagare pegno per una scommessa che aveva perso con l’ “uomo lungo” – così chiamiamo Massimiliano, un nostro amico che è alto e lungo quanto il suo nome – ed è entrato nel locale con un sorriso a trentadue denti e le mani in tasca. Masticava la sua chewingum e si era stampato in faccia quella sua risatina sorniona. Un sorriso da ebete. Che rabbia quando lo tira fuori! Vuol dire che ne sta combinando una delle sue e non sai mai se sarai tu la vittima o qualcun altro. È un sorriso paraculo. Lo stesso che ogni tanto si stampa in faccia anche mia sorella.

Quattro metri... cinque... sei... Mia sorella è una gran bella ragazza, ma non glielo dirò mai. Ha solo due anni meno di me, ma si atteggia a donna vissuta e quando passa sculettando davanti ai miei amici vorrei ammazzarla, perché quelli poi gli piglia che fanno gli stupidi e pronunciano in mia presenza frasi e apprezzamenti che non vorrei sentire. E poi mi rode che lei mi renda partecipe della sua vita sessuale. L’altro giorno, prima di uscire, è venuta nella mia stanza a chiedermi un preservativo. Era vestita con una minigonna che Nicola definirebbe “ascellare”, truccata così forte che mi aspettavo che l’anima di Moira Orfei si materializzasse da un momento all’altro per chiederle consigli sul maquillage. E poi si era tuffata nella boccetta del profumo: lasciava una scia che manco gli aerei! Le ho detto: - A chi la devi dare stasera? – Lei si è arrabbiata, ha blaterato qualcosa e se n’è andata sbattendo la porta. Dall’altra stanza mamma le gridava di non fare tardi, ma non penso l’abbia sentita. Fa sempre di testa sua: non sopporta i consigli e mi tratta sempre come un povero demente davanti ai miei amici. Dice che devo sbloccarmi di più con le ragazze, che non ci so fare. Ma non è vero. È solo che non mi va di andare con chiunque. Non dico che voglio Madre Teresa di Calcutta accanto, ma almeno il minimo sindacale: almeno lo sguardo deve averlo sincero, e che diamine!

Sette metri... otto metri... nove. Mio padre mi ha confessato che da giovane non perdeva un’occasione, non aveva pace con le donne, ne era ossessionato. Le mattine che aveva bigiato la scuola le passava da un istituto della città all’altro a trovare le sue due/tre fidanzate. Purtroppo, credo che non abbia perso il vizio. Lui è un agente di commercio e si sposta spesso con una collega. L’altro giorno, mentre stava andando via, mi sono affacciato, l’ho visto salire in macchina e allungare una mano sulla coscia della sua collega. Meno male che mamma era a lavoro! Se lo sapesse non glielo perdonerebbe mai! Ricordo che una volta scoprì una sua scappatella e se ne andò di casa per tre giorni, dopo aver messo a soqquadro l’appartamento mentre gli urlava contro. Mio padre fece la posta davanti casa dei miei nonni, dove lei si era sistemata, con mazzi di fiori, striscioni d’amore e perfino una serenata che pagò profumatamente ad un cantastorie del paese. La mamma si convinse a tornare ma gli giurò che un’altra volta sarebbe stata l’ultima.

Dieci... undici... dodici metri. Mamma è bellissima, ma spesso mi sembra una gattina inerme. Sarà perché è minuta e bassina, sarà perché la sua è una vocina sempre malata. Ha qualche problema alle corde vocali, probabilmente perché fuma troppo. Fa l’infermiera all’ospedale e, a volte, anche a casa con noi. Sembra quasi che le venga difficile smettere i panni della crocerossina: si prende cura di tutto e di tutti, dalla più piccola piantina di casa ai nostri capricci di adolescenti e a quelli del bambino mai cresciuto che è papà. Lo ama tanto e, secondo me, ne è fin troppo dipendente, ma è bello vederli baciarsi furtivamente in corridoio come due ragazzini. Si baciano soprattutto dopo che hanno litigato. Si baciano spesso. Sarà perché litigano spesso.

Tredici metri... quattordici metri... quindici metri...

Non è che ci abbia capito molto di questa vita. Sembrano tutti un po’ matti e forse lo sembro anche io agli altri. Ha mille vie secondarie, questa vita, mille sottopassaggi e sovrappassi. Si snoda come un labirinto con infiniti bivi. Io ho preso quello sbagliato, per questo ho fatto un volo di diciotto metri.

Mi sono alzato stamattina con la voglia di chiudere gli occhi e non aprirli più. Vanessa mi ha lasciato ieri: sì, bella stronza, il giorno del mio compleanno! Mi ha detto che vuole tempo per pensare, che abbiamo bisogno di una pausa di riflessione. Odio queste tre parole: pausa di riflessione. Vuol dire che sta già con qualcun altro e io sono l’ultimo a saperlo. Probabilmente lo sapevano già tutti ieri alla festa e hanno fatto finta di niente. Che rabbia!

Mi sono alzato a fatica per andare a scuola. Non ho fatto neanche colazione. Ho preso lo scooter e sono letteralmente schizzato via da casa, prima che mia madre potesse notare la mia faccia. Sono un libro aperto per lei e questo mi dà fastidio, perché adesso il mio dolore lo voglio tenere per me e soprattutto non voglio che qualcuno se ne accorga.

Sedici... diciassette... diciotto metri! Sai quant’è lunga la vita, mamma? Diciotto metri. E sai di che profuma? Profuma di alcol e disinfettante. Da quassù si vede un lenzuolo bianco con due piccoli dossi che lo modellano. Sembrano due gambe nascoste, sì, nascoste sotto un lenzuolo bianco. E si sente pure un suono strano, come un bip a intermittenza. Mi sento la mano bagnata, mamma, ma non è sangue...

Mamma, non piangere, sono qui. Sono tornato.

Debora Di Pietra

Non sono occhi da turista

Il rumore della ventola in aereo lo ricordo ancora, si frapponeva al mio battito, al mio respiro, riempiva la terribile sensazione al limite tra dolore e vuoto che si annidava allo stomaco. Avevo deciso io di partire eppure quel malessere dentro adesso mi stava divorando insieme a una domanda che si ripeteva come un ritornello ben scandito. Perché lo hai fatto? Non mi chiedevo più se stavo facendo la scelta giusta, mi chiedevo ormai solamente perché. Avevo deciso io di partire, stanca di ricevere quattro banconote senza neanche una busta, come fossero una misera paghetta data a una bambina. Ero stanca di sentirmi immensamente grata per qualcosa che in realtà non va. Facevo lezione alle neoiscritte della scuola di danza dove io stessa avevo mosso i primi passi ed era quasi un sogno poter dare, poter essere per loro quello che la maestra Carolina era stata per me. Versavo ogni elemento vitale, ogni nozione appresa, ogni molecola di teoria, ogni millimetro di passione nelle mie lezioni e avevo creato con ogni allieva una relazione autentica. Ero certa dallo sguardo di Sara se quell’esercizio non la faceva sentire sicura, ero certa dall’espressione di Annarita se avesse dimenticato le scarpette o se aveva mangiato di nascosto una brioscina dallo zainetto prima della fine della lezione. Sentivo raramente la fatica fisica, sentivo spesso la frustrazione, nonostante tutto. Sentivo quell’amarezza di essere arrivata alla meta ma di non poterne gioire, di sentirmi vincolata a un grazie che non è realmente tale. Non potevo fare un acquisto, sbilanciarmi in una scelta. Non potevo prendere casa con Luigi perché i soldi non erano abbastanza, perché domani chissà. Non sentiva neanche lui la stabilità sotto i piedi, si era laureato in economia ma dal prima al dopo poco era mutato, il giorno prima della proclamazione faceva il segretario presso uno studio e il giorno dopo continuava a farlo, forse le veniva affidata qualche incombenza in più, legata alla sua qualifica sì senza aggiunta al suo salario. Non riuscivamo a immaginare un futuro lontano dal domani, non riuscivamo a vederci oltre semmai peggio. Quando qualcosa mi torturava la mente andavo sempre a cercar quiete in quell’angolo, dopo lido azzurro, una cavità della costa sconosciuta a molti, non a Luigi. Nello sguardo rapito dalle onde comprese e colse subito quel senso di rassegnazione che assaliva i miei ragionamenti ma non riuscì a distoglierlo, si accostò a quel sentire che ci apparteneva. “Andiamo, partiamo” era un invito, una proposta che si accennava spesso ma mai si era concretizzata sino ad allora, sembrava l’unica via per migliorare qualche aspetto del proprio sentiero. Si era concretizzata davvero quando dovevo salutare i nonni, quando abbracciare mamma non voleva dire riabbracciarla il giorno seguente, quando tua sorella potevi solamente sentirla al telefono, quando tuo padre ti dava quel colpo sulla spalla che solamente quando deve infonderti forza dà. Abbracciare con la consapevolezza di non tornare a farlo il giorno dopo è come un colpo tagliente sul petto, una sorta di condanna a morte per cuori fragili. Salimmo su quell’aereo con un atteggiamento anomalo nei confronti della vita, non c’era entusiasmo, nessuna gioia, non si piangeva ma c’era come uno stato di stasi. Luigi mi stringeva la mano, sapevo di potercela fare. Lui era coraggioso ma sapevo che a volte la sua bussola si sovraccaricava e faceva fatica a trovare la via, io ero lì per questo. Pensi, associ parole a immagini sbiadite che stanno per comporsi, pensi e crei stanze di nessi causali e logici in quel momento di viaggio che ti obbliga a non andare, a non fare mentre tutti si ritrovano in qualcosa affeccendati. La voce di una hostess squillante ci svegliò da questo stato e ci riportò con i piedi per terra, in una terra che non osservavamo con occhi di turisti ma di qualcosa che neanche io so come definire, descrivere oggi, un essere umano, in cerca di una stabilità che lì non vorrebbe ma deve barcamenarsi per trovare. Quanta strada percorsa, quanti treni, quanti autobus. Se ci penso solamente adesso credo di aver fatto scaturire in me una forma estrema di disgusto verso ogni mezzo di trasporto. Quanti passi verso mete indefinite, vai qui, c’è un annuncio fermati, dai lasciamo un curriculum. Una parte di me voleva riuscissimo in questa impresa, una parte di me sperava ardentemente di no. Negli avvallamenti di tempo che intercorrevano tra un colloquio e un altro immaginavo coreografie, ripensavo a passi di alcune esibizioni, mi distraeva e mi riportava in luoghi di quiete. Dormivamo in topaie chiamate hotel, uno si salvava da questa ardua catalogazione. Dormivamo è un eufemismo perché spesso ci giravamo in un letto che non ci apparteneva, io versavo lacrime che si perdevano in un abbraccio di conforto, lui si perdeva dentro mappe seppellendo la paura e l’insicurezza in un agire produttivo. Non so se sono mai riuscita ad elogiarlo nel modo giusto. La mattina iniziava con una colazione economica perché per risparmiare pochi spiccioli avevamo optato per un soggiorno senza colazione portando con noi un pacco di biscotti che sapeva di tale con un’attenta componente di immaginazione. Camminavamo, camminavamo, camminavamo per poi trovarci davanti a sguardi di commiserazione, di pietà, sguardi straniti. Alle chiamate dei nostri familiari rispondevamo con bugie o mezze verità per non amplificare una preoccupazione mista a tono di rimprovero. Mi fermavo davanti a ingressi di scuole di danza con lo sguardo colmo di desiderio e Luigi lo riconosceva, sapevo che neanche lui selezionava luoghi di lavoro ideali, adeguati alle sue competenze ma poteva mirare molto più in su. Da quando aveva perso suo padre Luigi aveva ridimensionato i suoi obiettivi perdendo quel pezzo di sé. Lo so che aver perso suo padre non significava solamente sentire la sua voce più distante ma significava aver chiuso una tavola di legno sopra un volto che era tutto, che avrebbe voluto in quell’istante, in mille altri. Ricordo quando afflitti dalla fatica ci siamo fermati per un attimo su una panchina a riprender fiato. Casualità? Chissà. Mi era caduto l’occhio su un annuncio lì, su quella vetrina all’angolo della traversa di via Cavour. Entrammo e dopo qualche minuto eri già seduto a fare un colloquio per quel posto che non era il tuo ideale ma tanto si avvicinava. Non riuscivo a crederci, ti aspettavo fuori, incrociando le dita, sperando. Ho impressa nella mente la tua espressione, così è cominciato il nostro percorso qui, un colloquio, la ricerca di un impiego per me, l’inizio in quella erboristeria per poi dopo poco ricevere una chiamata per sostituire la collega che purtroppo si era infortunata pochi mesi prima della realizzazione delle coreografie per il saggio. Indossare nuovamente il body bordeaux, le mezze punte in sala, mettere insieme passi davanti uno specchio immaginando gli stessi movimenti eseguiti da un corpo di ballerine, tutto mi sembrava impossibile, non riuscivo a capire. Affittammo un minuscolo monolocale in centro, minuscolo ma carino, confortevole, ben arredato, con un balconcino niente male per prendere una boccata d’aria al mattino. Contavamo gli spiccioli ancora e concedersi una cena era un lusso ma pian piano cominciammo a percepire che eravamo più vicini alla realizzazione dei sogni, agli obiettivi imposti dalle nostre scelte, dalla nostra indole. Soffrivamo, soffrivo di nostalgia, sentivo i crampi della lontananza ma poi sapevo che indossavo le mie scarpette e per quello che amavo fare ricevevo il giusto compenso. Il mio contratto si interrompeva al rientro della mia collega, che per sua fortuna sembrava reagire bene alla riabilitazione. Consapevole del lavoro dietro una coreografia, mi lasciò collaborare con lei sino al saggio finale. Un’esperienza intensa che però sapevo avrebbe segnato la fine. Avevamo parlato molto con Luigi, avevamo iniziato a cercare altre opportunità, ad evidenziare gli annunci, adesso andare a lavorare in un ristorante, in un negozio mi avrebbe pesato più del dovuto, adesso che avevo sfiorato la sala. La sera del saggio finale Luigi assisteva in terza fila, anche la mia amica Giulia si era messa in viaggio per assistere allo spettacolo, lo spettacolo della mia conclusione, del mio nuovo crollo in giù, della mia ripartenza da zero e invece proprio giunti ai saluti finali, mi furono consegnati dei meravigliosi fiori e a gran voce al microfono la maestra dell’intera accademia annunciò che avrei proseguito il lavoro con loro dopo lo splendido contributo dato alla realizzazione di questo saggio. Non riuscivo a comprendere quello che stava accadendo, Luigi si alzò in piedi, lo vidi, elegante e fiero e appena lo ritrovai nei camerini lo abbracciai con la foga di chi sente di avercela fatta, che avremmo potuto continuare a pagare quel monolocale e forse anche cercare qualcosa con una camera in più. Era felice, eravamo felici dentro una bolla di infelicità, dentro il rammarico e il cruccio enorme che la realizzazione e la soddisfazione sono parenti del distacco dal proprio ambiente, dai propri cari. Amara e dura terra che ci culla con i suoi odori, i suoi sapori e poi ci scaraventa via a calci. Quella sera la ricordo nei dettagli, ricordo la sensazione di completezza, avere lui accanto, sentire che nei miei progetti la danza diveniva il centro e non una recondita passione da tenere a bada, qualcosa da lasciare nel baule del tempo imperfetto. Finalmente Luigi riposava la sera beato e non serviva ai tavoli con le gambe a pezzi prima di un brusco risveglio all’alba per l’ulteriore tirocinio scambiato per lavoro. Finalmente insieme potevamo immaginare il domani, tramutare la lista dei “magari” in quella di desideri. Iniziò così quella che oggi è divenuta la nostra routine, sono arrivata così al ventesimo saggio di danza e lui gestisce con grande abilità l’ufficio di cui è responsabile. Sentiamo ancora il profumo di limone e ci sembra di impazzire, sentiamo ancora l’immenso impulso di tornare ad ogni festività, sentiamo ancora lo stomaco fare i capricci, la lingua vogliosa di assaporare il gusto di panelle e melanzane fritte, di una ricotta delicata che decora la scorcia del cannolo. Ci chiediamo ancora se ha avuto senso lasciare quella distesa di azzurro e quando rientrando arriva prepotente quella fragranza di salsedine basta a farci sentire a casa. Avevamo pensato di acquistare casa per i giorni che seguiranno la pensione ma inutile navigare così lontano dall’oggi, è arrivata Elena, poi Serena e sicuramente abbiamo cercato di rendere le nostre radici le loro, forzando un po’ la mano per far emergere in loro la curiosità e la voglia di appartenere a quella terra, a quell’accento, a quelle tradizioni. Ci feriva sentire che alcune parole non le appartenevano, che alcuni intercalari non li comprendevano. Ma continuavamo ad indossare con orgoglio il body bordeaux per le lezioni e Luigi continuava ad indossare la camicia per raggiungere un posto ambito che per un lungo percorso appariva irraggiungibile. E ora un annuncio riempiva le pagine della Gazzetta di codici, articoli, requisiti, modalità. La domanda è un eco che si annida lento, ritrovarsi davanti lo stesso bivio al contrario è quasi uno scherzo cattivo di un destino indeciso.

Federica Falzone

Biografia

Federica Falzone è un’autrice e psicologa siciliana. Nasce a Caltanissetta, un paese dell’entroterra dell’isola, studia a Palermo e attualmente vive e lavora a Piacenza. Si è sempre dedicata a laboratori di scrittura e lettura. Ha scritto per alcune testate giornalistiche, su blog online e ha pubblicato “Fiori di Vaniglia”, una raccolta di storie e poesie.

Il piumone

Martedì mattina.

Treno per Roma delle 9:50.

Tanta gente senza quell’aria assonnata diffusa alla quale sono abituato, vista l’ora ormai avanzata.

La maggior parte dei passeggeri si è ormai svegliata ed ha fatto il suo ingresso a pieno titolo nella nuova giornata.

Purtroppo anche lei.

La chiamerò Gina, per semplicità.

Di Gina, a distanza di un’ora tutti noi, disgraziati ostaggi della carrozza numero sei, ormai sappiamo un mucchio di cose.

Nessuna costituisce una notizia.

La vera notizia sarebbe che Gina ha perso la voce per un improvviso attacco di afonia.

Purtroppo non succede.

L’incubo inizia alla Stazione di Torino Porta Susa.

Gina sale.

Un nanosecondo dopo le orecchie, i nervi, i muscoli e financo le ossa di tutti noi sono aggrediti da una scarica di decibel tale da non poter essere arginata.

È Gina.

Sta telefonando.

“Senti Doina il piumone magari lo cambiamo.

No lo lasciamo.

No lo cambiamo e lo laviamo.

Oggi c’è il sole.

Toglilo, lavalo e stendilo.

Sul terrazzo.

No nel garage.

No sul terrazzo.

Non pioverà.

Ok, cambia il piumone, lavalo e stendilo sul terrazzo.

Ma alle cinque, quando vai via ritiralo.

Perché magari piove...”.

Tutto senza pause, a voce altissima, con un inequivocabile accento piemontese che sembra una parodia.

La povera Doina secondo me è ormai traumatizzata.

Noi pure.

Gina prende fiato.

Un altro nanosecondo.

Non di più.

Ricomincia.

Questa volta la sua vittima è la vicina di posto.

Soliti decibel, solito birignao piemontese, solito smitragliamento di parole.

“Perché sa, è ora di lavare il piumone.

Ma se poi piove?

No, non pioverà.

Ho detto alla colf di stenderlo sul terrazzo.

Ma poi ho dovuto dirle anche di ritirarlo quando se ne andrà.

Perché se piove, capisce, il piumone si rovina.

Viene dalla Romania” (Il piumone? La colf? Il terrazzo?!?!?)

La sua vicina di posto cerca disperatamente scampo fingendo di aver ricevuto una email molto urgente ed importante.

È visibilmente scossa.

Ma Gina è implacabile.

Riprende.

“La mia colf viene dalla Romania, MA è abbastanza brava sa?

Certo non mi stira niente.

Lava.

Pulisce e cucina un po’.

Ma non stira.

E se una colf non stira non va bene, non trova?

Vengono qua, credono di trovare il Paese di Bengodi, dai loro un lavoro e poi appena giri gli occhi, ECCOLE CHE FANNO LE FURBE!!!

Non ha senso che una colf non stiri.

Non trova?

Se non mi stira quando torno a casa tocca a me.

Devo insistere.

Non trova?

Della povera disgraziata non si sente neppure la voce.

Forse è svenuta.

O forse sta cercando un modo per mettersi in salvo.

Gina ricomincia.

Altra telefonata.

A Doina.

“Hai tolto il piumone?

Ricordati di stenderlo sul terrazzo.

MA QUANDO VAI VIA RITIRALO!!!

Magari piove...

Ah, questa volta riesci a stirarmi qualcosa?

Almeno le camicie.

Ah, qualcuno suonerà il campanello (????).

Aprigli solo se dice che é AMAZÓN!!

Gli ho scritto qualche giorno fa e deve portarmi delle sedie.

Se suonano il campanello chiedi se hanno delle sedie e se sono del Signor AMAZÓN.

Altrimenti NON APRIRE!!!

Ah, fammi la spesa.

Arrosto.

Di vitello.

Che sia magro.

Non grasso.

Magro!

Capito?

Lo cuocio io.

Ciao.

Mi raccomando IL PIUMONE!!!!

Ah... l’ arrosto!

MAGRO.

NON GRASSO!!!!

Tutta la carrozza numero sei è in subbuglio.

Siamo tutti agitati.

Scossi.

Incazzati.

Diverse paia di occhi rivolgono a Gina sguardi prima imploranti, poi di disapprovazione, poi minacciosi.

Alcuni sono percorsi da quel lampo inquietante che rivela un incalzante istinto omicida.

Gina non si scompone.

Della sua vicina di posto non abbiamo notizie.

Forse è morta.

Arriva il momento dell’arrosto.

Giuro, dopo questa esperienza diventerò vegetariano.

La voce garrulo-sabauda di Gina si lancia nella descrizione MINUZIOSA di come si cucina un arrosto.

Minimi dettagli, spesso ripetuti tre volte, riversati come un liquido corrosivo nelle orecchie di tutti noi.

Ma la vittima presa di mira direttamente questa volta è un’altra Signora.

È anziana ed è seduta nella fila accanto a quella dove sta seduta Gina.

Quindici minuti di martellamento ad alta voce sul tema dell’arrosto.

Gina sembra respirare con i pori della pelle.

Non prende mai fiato.

Dal profluvio di parole emerge anche (INCREDIBILE!!!) che nella vita di Gina c’è un uomo.

Tale Giulio.

È lui il destinatario dell’arrosto.

E forse è lui che giace sotto quel maledetto piumone con Gina.

Sono sicuro di non essere stato il solo ad immaginare Gina sotto il piumone accanto a Giulio.

Per un attimo mi sono sembrati attraenti anche i paracarri.

Loro almeno non parlano.

Lei sì.

La sua voce invade tutto il vagone, ricopre ogni cosa, investe ogni creatura, animata ed inanimata, ti bracca senza pietà. In venti minuti riesce ad alluvionarci con una quantità impressionante di argomenti del cavolo.

AMAZÓN, il piumone, l’arrosto, i detersivi da usare per lavare il piumone, il frigo E TUTTI I SUOI CONTENUTI, le sedie comprate dal signor AMAZÓN, le colf rumene, Giulio, stirare stirare stirare, la spesa, per questo è meglio la Coop per quello vado da Auchan per quell’altro vado nel negozietto sotto casa, CON LORO ALMENO POSSO FARE DUE PAROLE (!!!!!!), ma la spesa la faccio io non la rumena, non dico che sia disonesta percarità (per quanto... mai mettere la mano sul fuoco) ma non ha il senso del risparmio eh già, loro vengono qui morti di fame e poi non si abbassano nemmeno a stirare due camicie...

Siamo tutti più o meno concentrati nel fare lo sforzo immane di non metterle le mani addosso.

La vecchia dorme.

Forse è morta anche lei.

La smitragliata domestico-piemontese-ad altissimo tasso di decibel prosegue senza tregua.

Gina ha l’aria ispirata.

Noi no.

La voce del capotreno annuncia che stiamo per arrivare alla stazione di Milano Centrale.

Un refolo di speranza ci coglie tutti.

Anche la vecchia apre un occhio.

Ha lo sguardo fisso ed acquoso.

Ok, non è morta ma di certo non è più tra noi.

È in un misterioso altrove dal quale non ha alcuna intenzione di tornare.

Beata lei…

La vicina di posto di Gina invece ha gli occhi chiusi e direi che è più di là che di qua.

Forse quell’essere scenderà a Milano.

Sicuramente c’è chi prega il suo Dio, chi fa voto di non fumare più, chi si ripromette di strozzarla se non scenderà, chi si affida stremato alla sorte...

Gina SI ALZA.

Si avvia verso la porta del treno.

Siamo salvi!!

Facciamo in tempo a sentirla attaccare bottone con un’altra signora che è riuscita ad arpionare un attimo prima che riuscisse a mettersi in salvo.

È lei la prescelta per sviscerare il nuovo argomento.

IL CAMBIO DI STAGIONE.

Vengo percorso da un brivido di orrore.

Per la prima volta capisco perché c’è gente che si arruola nella Legione Straniera.

ERNST14052022

Lo volevo lì

(Post Social, scritto in data 6 marzo 2022)

Il circo-teatro brulicava di pubblico: bimbi, adulti, mamme, papà.

Gli acrobati erano colorati, allegri, sorridevano, ci sorridevano.

Noi col naso all’insù, rapiti dalle loro performance, dalla potenza della musica che riempiva il loro palco di energia, gioia, leggerezza... vita.

Mi sono ritrovata ad applaudire, esultare, mi sono fatta coinvolgere da quel pezzo di mondo che ti fa battere il cuore di bellezza, quel pezzo di mondo che ti fa vibrare di bontà.

Mi sono ritrovata a guardarli fluttuare nell’aria, con il sorriso stampato sulla faccia, con la pace nel cuore.

E senza accorgermene, mi sono ritrovata con le lacrime agli occhi: lo volevo lì, in quel tripudio di bellezza, gioia, allegria, leggerezza.

Lo volevo lì, per fargli vedere i nostri sorrisi, i nostri nasi all’insù.

Per mostrargli che quando il cuore ti batte di vita, il mondo gira meglio, e anche il sole, e il cielo, e le nuvole.

Per dirgli che se quel battito non lo sa sentire, ha sbagliato mondo, ha sbagliato momento, era, storia.

Ha sbagliato tutto.

Lo volevo lì per far entrare nel suo cuore quella bellezza, quel calore, quella gioia, quella allegria.

Lo volevo lì per far sciogliere quella coltre di ghiaccio che ha anestetizzato il suo cuore.

Lo volevo lì per vederlo libero e, finalmente, pronto per fare la pace (con se stesso e con il resto del mondo).

…l’amore, non la guerra.

#pace #cuore #calore #vita #libertà #aliceinwondeland #alicenelpaesedellemeraviglie #milano #fabbricadelvapore

Alessandra Meli

Biografia

Alessandra Meli

• Elementari: disciplinata ma vivace ed eccentrica

• Medie: un po’ (poco eh;) timida ma (irrinunciabilmente) aperta

• Liceo: organizzata e loquace

• Università: spaesata ma poi (velocemente) ritrovata

• Primo lavoro: orgogliosa ed entusiasta (Responsabile Commerciale per 7 anni in una multinazionale Americana (MANPOWER)

• Secondo lavoro: motivata e (inguaribilmente) team addicted (dal 2007 a oggi: co-founder di un’Agenzia di Eventi Aziendali e Comunicazione | AMT SOLUTION)

• Oggi: porto avanti tutto quello che sono stata, per rimanere (affettuosamente) mano nella mano, con tutto quello che sono diventata

• Domani: sogno, pianifico, studio, osservo, investo, mi fido

Viaggio nei ricordi di un bambino degli anni 50 dintorni

(Tratto da “Io & Paulo Coelho”)

Mi chiamo Enzo Meli, sono nato tantissimi anni fa; per meglio dire, nel gennaio del 1945 a Comiso, in Via Puglie n°53, in Sicilia. Ho lasciato la mia città all’età di 16 anni. Mio padre, stanco di sentirmi lamentare, perché a Comiso noi ragazzini eravamo considerati... i “Picciriddi”, bambini... perciò non degni di ascoltare o discutere... i discorsi dei così detti “grandi”, mi fece “emigrare”: andai da zio Santino, fratello di mia madre, in una grande città del nord, Torino. Con tanta felicità, lasciai la mia fase iniziale dell’essere ragazzino, portandomi dietro tutti i ricordi, per non dimenticare i miei primi quindici anni a Comiso e per 55 anni li ho tenuti nel mio cuore. Il 18 febbraio del 2013, sul mio profilo di Facebook qualcuno ha postato: “Se eri un bambino negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, Ottanta devi leggere”. Il riferimento è ai Diciassette Punti, a questa fotografia e a una domanda finale...

1°. – Le nostre culle erano dipinte con colori vivacissimi, con vernici a base di piombo.

2°. – Non avevamo chiusure di sicurezza per i bambini nelle confezioni dei medicinali, nei bagni, alle porte.

3°. – Quando andavamo in bicicletta non portavamo il casco.

4°. – Uscivamo, montavamo in bicicletta o camminavamo fino a casa dell’amico, suonavamo il campanello o semplicemente entravamo senza bussare, se lui era lì uscivamo a giocare.

5°. – Bevevamo l’acqua dal tubo del giardino invece che dalla bottiglia dell’acqua minerale...

6°. – Trascorrevamo ore ed ore costruendoci carretti a rotelle ed i fortunati che avevano strade in discesa si lanciavano e, a metà corsa, ricordavano di non avere freni. Dopo vari scontri contro i cespugli imparammo a risolvere il problema. Sì, noi ci scontravamo con cespugli, e... non con auto!?

7°. – Uscivamo a giocare con l’unico obbligo di rientrare prima del tramonto. Non avevamo cellulari... cosicché nessuno poteva rintracciarci. Impensabile...

8°. – Non avevamo Playstation, Nintendo 64, X box, Videogiochi, televisione via cavo con 99 canali, videoregistratori, dolby surround, cellulari personali, computer, chat– room su Internet...

9°. – Ci tagliavamo, ci rompevamo un osso, perdevamo un dente e nessuno faceva una denuncia per questi incidenti. La colpa non era di nessuno, se non di noi stessi...

10°. – La scuola durava fino alla mezza, poi andavamo a casa per il pranzo con tutta la famiglia (si, anche con il papà).

11°. – Da bambini andavamo in auto e non avevano cinture di sicurezza, né airbag...

12°. – Viaggiare nella parte posteriore di un furgone aperto era una passeggiata speciale e ancora ne serbiamo il ricordo.

13°. – Mangiavamo biscotti, pane olio e sale, pane e burro, bevevamo bibite zuccherate e non avevamo mai problemi di sovrappeso perché stavamo sempre in giro a giocare...

14°. – Condividevamo una bibita in quattro... bevendo dalla stessa bottiglia e nessuno moriva per questo...

15°. – Sì! Lì fuori! Nel mondo crudele! Senza un guardiano! Come abbiamo fatto?

16°. – Facevamo giochi con bastoni e palline da tennis, si formavano delle squadre per giocare una partita; non tutti venivano scelti per giocare e gli scartati, dopo, non andavano dallo psicologo per il trauma. Alcuni studenti non erano brillanti come altri e quando perdevano un anno lo ripetevano. Nessuno andava dallo psicologo o dallo psico-pedagogista. Nessuno soffriva di dislessia né di problemi di attenzione o d’iperattività; semplicemente prendeva qualche scapaccione e ripeteva l’anno...

17°. – Avevamo libertà, fallimenti, successi, responsabilità... e imparavamo a gestirli.

E infine, se appartieni a questa generazione, condividi questo link con i tuoi conoscenti della tua stessa generazione… e anche con gente più giovane perché sappiano come eravamo noi da bambini. Come abbiamo fatto a sopravvivere, a crescere e diventare grandi...? I Diciassette Punti, con la foto iniziale degli anni 1950 & dintorni, in me suscitano emozioni forti: ricordi di momenti belli e anche tristi che hanno tracciato la nostra vita e sono rimasti impressi, nella ricerca della felicità negli anni dell’infanzia con i genitori, nella dolcezza ovattata della nonna, quella dolcezza infinita che riscaldava il tuo cuore da bambino, la tua infanzia, quando affidavi al futuro la risoluzione della tua vita. ...Oggi è il futuro? Sono trascorsi 65 anni dal 1950 & dintorni. Ho letto il post, l’ho riletto un’infinità di volte, mi piace rileggerlo per il piacere che mi suscita, per il riaffiorare di momenti diversi, ogni volta che lo rileggo mi accorgo del mutamento nel mio stato d’animo. Ma non tutte le parole hanno lo stesso potere, come non tutti i ricordi. Questi in me suscitano la concretezza del mio passato a Comiso, la mia fanciullezza, l’essere ragazzino, il bambino che c’è ancora in me. Tanta voglia di ricordare per scrivere, come vivevamo noi bambini del 1950 in Sicilia? Vorrei, voglio ricordare e scrivere i nostri momenti più belli. L’idea di scrivere un libro, mi affascina, ci ripenso e mi domando: “Ma chi minchia credo di essere?” In questo momento mi viene in mente mio padre quando non riusciva a dire qualcosa diceva: “Non riesco a latinarla”. Bellissima espressione, esprime quello che sta succedendo a me in questo preciso momento: non riesco a latinare la risposta alla mia domanda sopra, ma chi minchia credo di essere?

Ci sono riuscito: l’ho latinata. Sto lievitando come il pane, mi monto la testa? No! Non è facile, raccontarsi e raccontare anni vissuti 65 anni prima. È più facile inventare una storia di sana pianta che raccontare fatti veri, perché non puoi bleffare. La mia mente si blocca, si rifiuta, mi dico: “70 anni per iniziare una nuova sfida?” E a malincuore abbandono l’idea... Ogni giorno, inconsapevolmente, mi domando se bastano 17 punti per spiegare la nostra infanzia? No! “Enzo, non pensarci più, blocca questa malsana idea che ti frulla nel cervello”. Capitolo Secondo Già visto, minchia! Giuseppe Tornatore con uno dei più romantici film di fine -’900: “Nuovo Cinema Paradiso”. Un film del 1988: un racconto geniale, la storia di Salvatore Di Vita, regista affermato che vive a Roma, dopo 40 anni di lontananza dal paese natio siciliano, torna nell’isola per un funerale. Anch’io sono nato in Sicilia e ho vissuto tra Torino, Milano e Como: cinquantacinque anni lontano dalla mia terra di Sicilia, Comiso, la cittadina dove sono nato. Certo! Lontano dalla capitale di Salvatore Di Vita; Roma è lontana da Palermo, il capoluogo della Sicilia, due gioielli coperti dalla polvere della storia, due città bellissime. Sono un pazzo, il solo pensiero di paragonarmi a Tornatore, brr! Mi viene freddo. Sì! Certo, sono ritornato in Sicilia, non per i funerali di qualche amico, ma per fare il nonno e dopo 55 anni respirare un po’ d’aria natia, quella di Sicilia, l’amore per la mia terra, quella Iblea.

Il confronto con Tornatore non mi pone in soggezione, ma stimola la mia creatività. Ok? Il trafiletto finale dei Diciassette Punti: “Se appartieni a questa generazione, condividi questo link con i tuoi conoscenti della tua stessa generazione, e anche con gente più giovane perché sappiano come eravamo noi prima”. Fatto, condiviso! Analizzo bene e dopo aver ben meditato, decido di dimenticare è non pensarci più. Qualche giorno dopo, come ci fosse un tarlo nel mio cervello che mi porta a rievocare il post di Facebook... Mi ridomando: “Per quale ragione devo limitarmi a condividere un link?” Basterebbe dare un senso, ascoltare il cuore per raccontare gli anni Cinquanta, gli anni della mia infanzia in Sicilia. Spiegare senza tante pretese, semplicemente, come abbiamo fatto a non perderci per strada... Ricordare per raccontare l’infanzia vissuta da noi bambini del 1950 & dintorni, nel sudest d’Italia... Per l’ennesima volta ci rinuncio.

Marina di Ragusa, 9 Marzo 2013 Sono seduto comodamente in poltrona a guardare un film in TV, “Il 7 e l’8”, una commedia all’italiana con Ficarra e Picone. Un tarlo nella mia mente insopportabile mi sfruculia, uno sfruculiamento continuo, mi fa pensare al messaggio postatomi su Facebook otto giorni prima. Non ne posso più, sto perdendo la pazienza, il mio cervello fa delle associazioni assurde, più volte mi spedisce su Facebook, per creare nuove annotazioni o per modificare quelle esistenti; diviene insostenibile.

Ci vuole un momento di coraggio per far smettere quello stronzo tarlo che ormai è divenuto un tarlo distruttore... Con un salamelecco vado nella parte più remota del mio cervello, dove troverò i ricordi, i sogni della mia infanzia. Enzo, attento, non farti prendere dal romanticismo infantile, perché subito dopo la guerra non c’era romanticismo! Subito dopo la guerra c’era tanta fame; subito dopo ogni guerra, la vita è difficile, nel sud italiano ancora più dura per la povertà che si respirava dalle nostre zone, attento, ci stai ricascando?

Sono totalmente incasinato, il mio cervello si ribella. Concludo che, forse, devo incominciare a ricordare per scrivere. Nella mia testa sta accadendo di tutto, una vocina continua a dirmi: “Devi farlo, devi farlo, devi farlo! Che ti costa?! Un po’ di ricordi agguantati qua e là come fanno tutti, puoi scriverli, accetta la sfida, scrivi gli anni della tua infanzia, finalmente puoi scrivere e fare delle riflessioni sul passato-per-non- dimenticare la- storia-di-ieri...” Io! Storico siciliano? “Ma mi faccia il piacere!!” Come diceva il grande Totò... Un po’ di storia, quella vissuta, anche se non è un’attenta valutazione, posso permettermi di raccontarla e commentare qualche fatto storico col senno del poi. Ribadisco e mi richiedo, molti storici hanno raccontato attimi di secoli mai vissuti direttamente. Nel 1950 & dintorni io c’ero! Ho vissuto gli anni ‘50, ‘60, ‘70, ‘80, ‘90, 2000, 2010 e voglio vivere almeno fino al 2050... Si tratta di “raccontare una verità storica vissuta direttamente”: qualunque cosa, purché sia la verità, vissuta in prima persona! Per me è chiaro, questo racconto serve per non dimenticare mai quello che è accaduto nel nostro passato.

Non sarà facile riuscire a trasmettere le mie emozioni, raccontare i fatti, senza mai dimenticare la grande dignità che si respirava in quegli anni: pure noi bambini del 1950 & dintorni inspiravamo e germogliavamo con la grande dignità dell’Italia di quel periodo.

Enzo Meli

Biografia

Enzo Meli è nato a Comiso nel 1945; dopo l’Istituto d’arte si è trasferito a Torino nel 1960. Da sempre attratto dal mondo della moda e dello spettacolo, lavora nel mondo della moda, creando il tessuto lurex; dal 1962 si è occupato di radio e televisione: autore e produttore televisivo con centinaia di format al suo attivo, diventa precursore di radio e televisioni commerciali. Nel 2005 esordisce con il suo primo romanzo, “I delitti del Santo di Maggio-the show must go on”, ristampato nel 2016 da TraccePerLaMeta Edizioni, cui hanno fatto seguito “I delitti del Santo di Maggio 2- il nodo” e “Io&Paulo Cohelo”, sempre con TraccePerLaMeta Edizioni; infine ha pubblicato “Caxxo quell’attimo - storie di tutti i giorni”, ma ha molti altri progetti per il futuro.

Donna e medicina cinese

Dunque la donna nella medicina cinese che bell’argomento ed ampio.

Direi di cominciare col concetto di bellezza intanto, di come sia diverso tra Oriente ed Occidente.

Intanto la bellezza è frutto di equilibrio tra interiore ed esteriore e pertanto parte da una profonda conoscenza di sé stessi.

Di più possiamo affermare che non è la perfezione di forme, ma l’armonia e la buona funzione di organi e mente.

In OCCIDENTE ci si arriva attraverso il concetto di “grazia” che si rivela nel volto e nel portamento e che induce a sentimenti elevati.

In ORIENTE il concetto è espresso dalla capacità di guardarsi dentro e di coltivare la propria armonia inseriti nel mondo.

Questo guardarsi dentro è detto Neishi, e non parla solo dell’introspezione psicologica o spirituale,, ma anche propriamente corporea. Cioè stiamo parlando del “sentire” come funziona il proprio corpo. Come se ci si potesse guardare dentro, cosa che si acquisisce con la pratica delle varie tecniche corporee che fanno parte delle tradizione cinese (Taiqi, Qigong; ...).

Torniamo a Neishi (guardarsi dentro) che spiega come le donne cinesi creano quella loro luce chiara,sono capaci di sciogliere i loro nodi interiori. Così creano di sé stesse un’impressione fluida ed integrata. Un tondo, un po’ come il simbolo del Taiji che sempre un po’ nero e un po’ bianco nel suo essere

Questa immagine del nodo da sciogliere si ha poi anche nella terapia di agopuntura, dove il sintomo è come un nodo nello scorrimento fluido del canale energetico. Il compito dell’agopunture è togliere appunto questo nodo.

Per le donne invece con lo sciogliere i nodi si integrano varie parti di sé.

Poi come per noi che abbiamo le donne a pera e le donne a mela, possiamo anche qui fare una distinzione dicendo che se siamo più larghe sotto la vita e tendiamo all’accumulo di cellulite siamo donne con una struttura più Yin, magari siamo anche più pallide o freddolose sempre caratteristiche Yin.

Mentre se tendiamo ad aumentare dalla cinta in su e le gambe restano magre, aumenta la circonferenza del seno e l’addome, abbiamo una predominanza Yang

Questa tipologia può essere fisiologica in menopausa perché in questo periodo della vita, come vedremo meglio spiegato poi, diminuisce energia di base dataci alla nascita e non si produce più sangue. Cala lo yin, aumenta lo yang che tende a salire, ed ecco la conformazione della donna detta a mela: con seno, addome abbondanti e gambe magre.

Ora che abbiamo chiaro ciò torniamo a qualcosa altro. Sappiamo che per la medicina cinese ad ogni organo, e sono cinque: polmone, rene,fegato,cuore e milza, è associata una emozione, o meglio uno psichismo. Per cuore avremo Shen che rappresenta il centro della persona, il suo spirito vitale. Per il Rene lo Zhi che rappresenta la volontà e la capacità di agire, per la Milza lo Yi che rimanda a pensiero e riflessione e da ultimi lo Hun per il Fegato che parla di creatività e il Po per il Polmone che riporta l’istinto vitale.

Queste caratteristiche che ho chiamate emozioni in realtà sono dette Ben Shen. Trovano espressione, come tutte le cose nella cultura cinese, anche nel nostro aspetto esteriore.

Tornando alla bellezza e alla donna, se parliamo della pelle abbiamo

-Shen che rappresenta il colorito della pelle

-Zhi che rappresenta la sua pigmentazione, vista la correlazione con le strutture ormonali

-Yi che è la secrezione sebacea

-Hun la mimica e quindi i muscoli facciali

-Po la struttura della pelle, e quindi la presenza di + o – tessuto connettivo e/o adipe e così via.

Quindi siamo arrivati a parlare dei fatidici 5 elementi, trattando il nostro aspetto esteriore. Addirittura il nostro involucro, la pelle.

Ora passerei di nuovo all’immagine del Taijii, per parlare della Gravidanza, perché questa per la medicina cinese è considerata come una abbondanza di yin(corporeo, scuro nel cerchio)e da un aumento dei liquidi organici.

Lo yin e i liquidi aumentano per la sospensione delle mestruazioni. La quantità di sangue che mensilmente viene risparmiata viene convogliata per nutrire il feto in accrescimento e la madre.

A questo proposito anche la terapia che faccio durante la gravidanza. Il punto o i punti, non sono molti da usarsi in quel periodo, fanno solo quello. Accrescono il feto.

Poi possiamo anche trattare la lombalgia in gravidanza, l’insonnia, e soprattutto la malposizione fetale, non ultima una circa 2 mesi fa. Una donna alla 35 sett che è arrivata col bimbo capovolto. Ora solo con lo scaldare con la moxa un punto sul mignolo del piede della madre il piccolo si è raddrizzato e sarà pronto per la sua discesa naturale in vista del parto.

La moxa è un sigaro fatto di artemisia, è uno degli strumenti che si usa nella medicina cinese. Serve a scaldare i punti

In particolare in questo caso col calore abbiamo dato Yang, quindi azione. E il piccolo ha trovato la spinta per raddrizzarsi.

Altra cosa possiamo usare l’alimentazione in gravidanza, per nutrire il sangue e lo yin,usando cibi che lavorano sulla Milza la produttrice del sangue.

Saranno alimenti di sapore Dolce, e di natura neutra e tiepida ( per dare forza alla produzione del sangue)

Anche qui, come nei 5 Ben Shen, ogni organo ha un sapore che lo nutre: per il Cuore l’Amaro. Per il Rene il Salato, per la Milza abbiam detto il dolce, per il Fegato l’Acido e per il Polmone il Piccante.

Per quanto riguarda la natura invece: calda-neutra o fredda, con intermedio di tiepida e fresca e solo una modulazione per ottenere più yang o più yin dalla dieta.

Quindi ogni organo ha un sapore, ricordarsi poi se vogliamo più yin (freddo-fresco-neutro) o più yang(caldo-tiepido-neutro)

Comunque i cibi consigliati in gravidanza sono

-cereali: riso, mais, miglio

-proteine: carne bovina, suina, uova, fegato di pecora e di maiale, + carpa e polipo

come vedete per i cinesi si usano molte proteine, perchè queste producono il sangue. Io potrei anche dire perchè danno i mattoncini per il corpo nuovo.

-verdure: asparagi, patate, bietole, cavolfiore, fagiolini, fagioli, soia, piselli, zucca e zucchine

come vedete qui le verdure sono assieme ai legumi

-frutta: a seconda della stagione, fichi, uva, nespole, datteri, giuggole, albicocche, pesche, castagne, pere, litchi

Laura Moroni

Biografia

Laura Moroni.

Sono laureata dal 1991 in Medicina a Milano, ma da sempre uso per lavorare le Medicine Complementari

Ho iniziato con la Omotossicologia, facendo exscursus nella medicina spagirica ed ayurvedica, per fermarmi infine alla Medicina Tradizionale Cinese, che ormai è diventato il mio strumento di lavoro definitivo.

Poi è nata anche la passione per la trasmissione di queste medicine tradizionali, e ho creato un sito “www.lauramoroni.com” con annesse piattaforme social e podcast.

Ci ho aggiunto anche degli ebook. Uno è stato fatto appunto con “Tracceperlameta edizioni”nel 2016 e si intitola “Alimentazione che cura, Cinese e Vegana” collana Avorio.

Anna e le sue amiche api

Quella mattina Anna non doveva andare a scuola ma, nonostante ciò, si era svegliata presto; il sole stava comparendo da dietro la collina e la sua luce cominciava a filtrare attraverso le gelosie che chiudevano la finestra della sua cameretta. Subito si alzò e corse ad aprire le imposte, la sua casa sorgeva proprio ai piedi della collina, in un vasto prato verde che in primavera si riempiva di fiori di ogni specie, uno spettacolo per gli occhi.

Suo padre era un apicoltore e, per il suo ottavo compleanno, le aveva fatto un grande regalo: la sua personale casetta delle api; l’aveva scelta lei stessa sul sito degli apicoltori ed era bellissima.

Anna l’aveva messa nel grande prato; così, diceva sempre a tutti, le api non avrebbero fatto fatica a trovare i fiori che a loro piacevano tanto.

Suo padre le aveva raccontato tante cose su questi insetti, prima di tutto la loro importanza nel ciclo della vita.

“Le api sono un miracolo della natura e noi dobbiamo difenderle” le diceva sempre. “Hanno un ruolo importantissimo nella nostra vita e in quella di tutti gli animali perché sono insetti impollinatori. Se puoi mangiare le albicocche e le ciliegie che ti piacciono tanto è proprio perché le api volano di fiore in fiore trasportando sul loro corpo il polline, grazie al quale da un fiore nasce un frutto; pensa che le api possono visitare fino a duecentoventicinquemila fiori al giorno, anche a distanze di molti chilometri. Senza le api, l’impollinazione naturale delle piante non sarebbe possibile e, di conseguenza, queste smetterebbero di riprodursi; molti frutti e semi cesserebbero di esistere e non ci sarebbe cibo per gli animali e per l’uomo. Un mondo senza api è un mondo senza cibo!”

Suo padre concludeva sempre con questa frase ogni suo discorso sulle api.

Purtroppo, le aveva anche detto più volte, il numero di api nel mondo si era ridotto notevolmente a causa dei pesticidi, dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici. Era quindi un dovere dell’uomo salvaguardare questi insetti, ed era anche per questo che lui era diventato un apicoltore.

Anna aveva imparato ad amare le api e quella mattina, dopo aver fatto un ampio respiro davanti alla finestra aperta, corse in bagno a lavarsi, si vestì rapidamente e, ancor prima di fare colazione, uscì per andare a porgere il buongiorno alle sue amiche api.

Sentiva dentro di sé che quello sarebbe stato un giorno speciale!

La casetta era davvero bella, c’erano persino delle piccole finestre attraverso cui le api potevano passare per andare a depositare il nettare che avevano raccolto dai fiori e dalle foglie e nutrire così le loro compagne.

“Buongiorno care amiche” stava dicendo loro, “oggi sarà una bellissima giornata e voi avrete tutto il tempo che vi serve per esplorare i dintorni.”

Una piccola ape stava volteggiando percorrendo armoniosi cerchi davanti ai suoi occhi, quando all’improvviso si spostò leggermente avvicinandosi al suo orecchio.

“Perché non vieni con noi?”

Una vocina dolce e sottile le aveva parlato, ma lei non vedeva nessuno intorno.

“Sono io, l’ape Bea! Dai seguimi, ti divertirai” e così dicendo l’ape tornò a volteggiare davanti al suo viso.

Anna non credeva ai suoi occhi, quell’ape le aveva parlato e le aveva chiesto di andare con lei! Non era possibile, le api non parlano e poi come avrebbe potuto fare lei, una bambina di otto anni, a volare con loro?

“La mia regina ti vuole conoscere e ringraziarti di persona per questo bellissimo alveare”, era di nuovo la vocina sottile che arrivava al suo orecchio.

“Verrei volentieri” si trovò a dire tutto ad un tratto, “ma come faccio, io sono grande e poi non ho le ali!”

“Questo non è un problema. Allunga la mano e lascia che mi posi sulle tue dita.”

Anna alzò il braccio e tese la mano davanti a sé; subito la piccola ape si posò con delicatezza, aprì la bocca e con la lunga lingua le toccò il dito.

All’improvviso il mondo intorno a lei cominciò a girare vorticosamente, i petali dei fiori diventavano sempre più grandi, l’erba del prato si era trasformata in una foresta e lei si sentiva rimpicciolire sempre di più; poi, così come era iniziato, tutto finì e Anna si ritrovò accanto all’ape Bea che la guardava con quei suoi occhi giganteschi.

“Benvenuta nel mondo delle api; presto, sali sul mio tronco e tieniti forte, incomincia l’avventura!”

L’ape Bea piegò una delle sue zampe per consentire ad Anna di salire su di lei, poi cominciò ad agitare ritmicamente le ali sollevandosi da quello stelo d’erba che le aveva fino ad allora sorrette entrambe.

Insieme iniziarono a volare e, spingendosi verso l’alto, raggiunsero la casetta che, da quella prospettiva, pareva essere un enorme grattacielo.

Entrarono da una delle aperture che ora ad Anna sembravano davvero gigantesche.

L’alveare era composto da tantissime celle esagonali e tante api continuavano a volare intorno, si posavano su una cella, poi su un’altra e riprendevano il loro volo uscendo e rientrando continuamente da quella struttura meravigliosa.

“Andiamo dalla regina” le disse l’ape Bea cambiando improvvisamente direzione di volo.

Dopo pochi istanti giunsero nelle vicinanze di una cella un po’ più grande delle altre e posta sul bordo esterno dell’alveare.

La regina si chiamava Magda ma non aveva una corona sulla testa; era tuttavia impossibile non riconoscerla perché era molto più grande di tutte le altre api e aveva un addome molto più sviluppato.

“Benvenuta Anna” le disse la regina Magda, “sei arrivata nel momento più adatto per capire il nostro mondo. Ho da poco deposto le ultime uova, una per ogni cella, le vedi? Sono quei piccoli puntini bianchi che vedi sul fondo; tra qualche giorno diventeranno api operaie, come quelle che hai appena visto muoversi all’interno dell’alveare. Ma ora Bea ti spiegherà tutto sulla nostra vita, lei è la nostra esperta di comunicazioni, ed è anche molto brava nel suo lavoro!”

Dopo queste parole l’ape regina si alzò in volo, ma, prima di uscire dall’alveare, si rivolse di nuovo ad Anna.

“Ora ti chiedo di scusarmi, i miei doveri di ape regina mi attendono; questo è il momento del volo nuziale” continuò guardando verso un punto dell’alveare dove si vedevano raggruppate una decina di api dal corpo un po’ più tozzo e più arrotondato.

“La nostra comunità ha continuamente bisogno di nuovi membri, e questo è il mio compito. Ma prima di andare ti ringrazio davvero moltissimo per il dono che ci hai fatto di questo bellissimo alveare; le altre colonie di api ce lo invidiano tutte!”

Così dicendo l’ape Magda spiccò il volo e uscì dall’arnia, subito seguita da quel gruppo di api che non la perdeva di vista nemmeno un istante.

“Quelli sono i fuchi, le api maschio della nostra collettività” disse l’ape Bea cercando di spiegare ad Anna quello che stava accadendo. “Il loro unico compito è quello di fecondare le uova che la nostra regina porta nel suo grembo. Purtroppo non li vedremo tornare; una volta che è avvenuto l’accoppiamento il loro compito finisce e muoiono subito dopo.”

“Che cosa triste” replicò Anna, “ma non si può fare nulla per loro?”

“Purtroppo no” spiegò l’ape Bea. “L’accoppiamento con la regina provoca una lacerazione nel loro corpo che non consente la sopravvivenza; ma i fuchi sono felici perché questo è lo scopo della loro breve vita e sanno di aver fatto il proprio dovere consentendo alla nostra specie di moltiplicarsi.”

L’ape Bea continuò a spiegare ad Anna quello che sarebbe accaduto dopo l’accoppiamento.

La regina avrebbe deposto le uova, come quelle che lei aveva già visto simili ad un granello di riso di un colore bianco perlaceo, una per ogni celletta esagonale.

Dopo poco più di un mese, le nuove api sarebbero emerse dalle loro cellette e avrebbero iniziato il loro lavoro.

Mentre l’ape Bea la conduceva per l’alveare e le mostrava direttamente quello che le stava raccontando, Anna era sempre più affascinata da quel mondo operoso in cui tutti avevano uno scopo. Voleva sapere sempre di più e mille domande le venivano alla mente.

“Ma se da queste celle nascono solo le api operaie, la regina da dove viene?” era la domanda che più desiderava fare dopo aver conosciuto la regina Magda.

“Anche la regina proviene da un uovo come tutte le altre api” cominciò a raccontare l’ape Bea “solo che in quel caso riserviamo all’uovo un trattamento diverso. In fondo vogliamo creare una regina che sia degna del suo nome.”

L’ape Bea la portò in una zona dell’alveare in cui le celle erano molto più ampie e più allungate, anche se decisamente in numero inferiore; ce n’erano meno di una decina, tutte con un piccolo uovo deposto sul fondo.

L’ape Bea le spiegò che la larva della regina veniva nutrita in modo diverso facendole seguire una dieta a base di pappa reale, una sostanza che veniva prodotta da alcune ghiandole poste sul capo delle api operaie. Questa dieta le avrebbe consentito di raggiungere dimensioni più grandi, con un addome molto sviluppato per contenere le uova e una possibilità di vita di circa tre anni, a differenza delle api operaie che vivono mediamente una sola stagione.

“Dunque l’ape regina ha il solo scopo di riprodursi per consentire lo sviluppo dell’alveare e i fuchi collaborano tra loro per la fecondazione della regina” disse a questo punto Anna.

“Lo scopo principale dell’ape regina è quello, ma è lei che controlla tutto quello che succede nell’alveare e dà le indicazioni di comportamento alle api operaie” rispose l’ape Bea.

“Comincio a capire, voi siete una grande famiglia, in cui ognuno ha uno scopo; le api regine e quelle operaie nascono dalle uova fecondate. Ma i fuchi da dove vengono?”

“Durante l’accoppiamento alcune uova non vengono fecondate ed è da esse che nascono i fuchi. In un grande alveare possono abitare fino a sessantamila api e di queste solo qualche centinaio sono fuchi. Oltre a fecondare la regina, con il loro corpo ci aiutano a mantenere caldo l’alveare.”

“Da quello che ho visto, gestire un alveare comporta un sacco di lavoro, compresa la produzione del miele che mi piace tanto. Visto che la regina e i fuchi hanno i loro compiti specifici, tutto il resto lo fanno le api operaie?” domandò a questo punto Anna.

“Sì, le operaie provvedono a fare tutto ciò che è necessario per la comunità. Alle api più giovani, fin dal primo giorno dalla loro nascita, viene affidato il compito di pulire e preparare le celle per la deposizione e la covata delle uova e sono sempre loro che nutrono le larve con il polline e il miele.

Quando raggiungono i sei giorni di vita, passano a nutrire le larve delle regine con la pappa reale e dopo dieci giorni sono in grado di costruire i favi dell’alveare. Subito dopo imparano ad immagazzinare il miele nelle celle, tengono pulito l’alveare e lo difendono da eventuali aggressioni. Alle api operaie più adulte viene affidato il compito fondamentale di procurare il nettare, il polline e l’acqua senza cui la comunità non potrebbe sopravvivere.”

“E dove trovano tutte queste cose?” volle sapere ancora Anna.

L’ape Bea cominciò a spiegare che le api bottinatrici, così venivano chiamate quelle che avevano il compito di rifornire l’alveare, raccoglievano il nettare e l’acqua dai calici dei fiori o dalla base delle foglie delle piante aspirandolo attraverso l’apparato boccale; facendo questo riempivano anche il loro corpo di polline e lo trasportavano di fiore in fiore contribuendo, come Anna già sapeva, alla riproduzione delle piante.

Tornate all’alveare, rigurgitavano poco a poco il succo prelevato nelle cellette trasformandolo in miele; dopo l’evaporazione della quantità eccessiva di acqua, le api stesse provvedevano a sigillare le celle con un leggero strato di cera che contribuiva alla conservazione del miele.

Oltre al polline, un nutrimento per loro ricco di proteine, le api bottinatrici raccoglievano anche sostanze emanate dalle gemme, dalle pigne e dalla trasudazione di piante resinose, quali pini, abeti, larici, pioppi, betulle e altri ancora; con queste sostanze producevano la propoli che utilizzavano poi come disinfettante e sigillante.

“Pensa che in un giorno le api di un alveare possono visitare tantissimi fiori volando ad una velocità di 25 chilometri all’ora” spiegò ancora l’ape Bea, “e per raggiungere questa velocità possono battere le ali anche 200 volte al secondo. Non siamo bravissime?”

“Siete super brave!” commentò Anna battendo le mani. “Ma ho ancora una domanda da farti; io e te parliamo e ci capiamo, ma non mi pare che tra voi usiate lo stesso linguaggio. Come fate a comunicare?”

“Non abbiamo grandi necessità di comunicazione, ognuna di noi sa quello che deve fare, però possiamo dirci alcune cose importanti con i movimenti del nostro corpo” e così dicendo le mostrò un’ape operaia che si stava muovendo tracciando piccoli cerchi.

“Quell’ape sta eseguendo una danza circolare: ci sta dicendo che nelle vicinanze ha trovato una fonte di nettare; come vedi altre api la stanno seguendo. Inoltre, muovendo l’addome in modo particolare possiamo anche indicare la presenza di pericoli per l’alveare o indicare in quale direzione si trova una sorgente di cibo.”

Anna era meravigliosamente e assolutamente felice dell’avventura che stava vivendo e avrebbe voluto che quei momenti non finissero mai; ma la posizione del sole ormai al tramonto diceva che era quasi giunta la sera e l’ape Bea doveva tornare ai suoi compiti nell’alveare.

Così, planando dolcemente, scesero nella foresta di fili d’erba appena sotto la casetta dell’alveare; Anna scese dalle spalle della sua guida e la ringraziò per tutte le cose che le aveva insegnato quel giorno.

“Tendi di nuovo la tua mano Anna” disse a questo punto l’ape Bea. “È ora di tornare a casa.”

Le tocco di nuovo un dito con la sua lunga lingua e, come per magia, il mondo intorno a lei tornò ad essere quello in cui aveva sempre vissuto. L’ape Bea le volò ancora una volta vicino all’orecchio sussurrandole “non dimenticarti di noi Anna, saremo sempre tue amiche!”

Poi sparì e si confuse tra tutte le altre api che andavano e venivano dalla casetta nel prato.

Anna corse in casa dove trovò suo padre che era appena rientrato dalla sua giornata di lavoro alle arnie della fattoria.

“Papà oggi ho scoperto tante cose sulle api e comincio a capire perché il tuo lavoro ti piace così tanto; dobbiamo aiutare le api, sono così importanti per la Terra tutta!”

“Oh Anna sono così contento si sentirti dire queste cose” le disse suo padre prendendola tra le braccia. “Le api sono un miracolo della natura e noi dobbiamo difenderle.”

Anna e suo padre si abbracciarono stretti, erano entrambi felici di condividere gli stessi interessi.

Quella sera, prima di andare a dormire, guardando dalla finestra della sua stanza verso la sua casetta delle api, promise a sé stessa che avrebbe fatto della difesa di quegli insetti il suo scopo nella vita.

Non ti posso perdonare

Eccoti, sei sempre lì, ogni giorno, ogni notte, ogni attimo della mia vita.

Ti vedo, barcolli un po’, poi bevi un sorso dalla bottiglia che hai mano.

Chissà, penso, forse è gin, forse è vodka, forse è solo vino, però devi averne bevuto tanto, il tuo corpo ciondola a destra e a sinistra senza un apparente motivo.

Ti vedo chiaramente quando ho gli occhi chiusi, i tuoi occhi scuri e quel tuo sorriso cattivo, ma anche quando li apro la tua immagine è lì, sovrapposta e confusa con tutto ciò che mi circonda.

Sei sempre e comunque con me.

Fino a prima di incontrarti mi piaceva passeggiare nel parco, proprio dietro casa mia.

Finivo di lavorare, tornavo a casa, mi mettevo la tuta da ginnastica e poi uscivo.

D’estate c’era luce fino a tardi e vedere il profilo degli alberi che si rifletteva sul laghetto artificiale, affollato di anatre, mi apriva il cuore.

D’inverno alle sei era già buio, ma mi bastava osservare le luci dei lampioni posti a lato delle panchine mentre proiettavano cerchi di luce sulla terra dove poggiavo i piedi per sentirmi libera e felice.

Ti vedo ancora sulla panchina mentre mi avvicino, la luce del lampione ti illumina i capelli, sono scuri e sporchi, non vedo il tuo viso mentre ti passo davanti.

Non ti guardo, non voglio attirare la tua attenzione, mi allontano da te senza girarmi indietro.

Ma tu mi hai vista, ti alzi e mi vieni dietro; io non me ne accorgo.

Continuo a camminare veloce, avrò percorso qualche chilometro da quando sono uscita di casa, il mio cellulare mi dirà quanti ne ho fatti, ma sono allenata e non ho il fiatone.

Tu ti avvicini, alle mie spalle, silenzioso, sento il tuo odore ma è troppo tardi.

Mi afferri un braccio, io giro su me stessa per non cadere a terra.

Ora vedo il tuo viso, ridi, mi dici parole che non ricordo, passi il tuo braccio intorno alla mia vita e con l’altra mano mi copri la bocca.

Mi divincolo, cerco di liberarmi, ma tua stretta si fa ancora più forte.

Non riesco a respirare, ho paura, cerco di gridare ma non posso.

Sposto gli occhi da una parte all’altra della strada, ma non ci sono altre persone oltre a noi due.

Mi sento persa.

Mi trascini a lato della strada illuminata, mi porti dietro gli alberi che ricoprono tutto il suo percorso, mi fai cadere a terra.

Tiri fuori il coltello e mi dici che se mi metto a gridare me lo infilerai nella gola.

Mi zittisco e piango, le lacrime non si vogliono fermare, ma a te non fanno nessun effetto.

Ti slacci i pantaloni e infili la tua mano libera nei miei; fai fatica e così mi imponi di abbassarli.

La lama del coltello è sempre lì, la sento premere sotto l’orecchio.

Non posso fare altro che ubbidirti.

Adesso le lacrime si sono fermate, non ho più nemmeno la forza di piangere, sono paralizzata.

Mi fai male, ma io rimango immobile, riesco a malapena a respirare.

Chiudo gli occhi sperando che tutto sia solo un brutto sogno e che quando li riaprirò scoprirò di trovarmi nel mio letto, tra le lenzuola aggrovigliate, con il cuore che mi batte all’impazzata, ma al sicuro dentro la mia stanza.

Ma è tutto vero, tu sei reale e sento il tuo ritmo violento dentro di me che sembra non placarsi mai.

Vai avanti così per un tempo che mi sembra eterno.

Poi, all’improvviso, ti fermi, il tuo respiro è affannoso.

Ti sdrai sopra di me, incurante del fatto che mi stai togliendo la possibilità di respirare.

Sento il tuo odore, più intenso, il tuo fiato puzza di alcool, mi viene da vomitare ma devo trattenermi, potresti spostare improvvisamente la lama coltello e la mia gola comincerebbe a sanguinare.

Poi penso che in fondo non me ne importerebbe, sono già morta, mi hai già ucciso.

Così mi arrendo, che la morte arrivi e plachi il mio dolore.

All’improvviso non sento più nulla, la mia anima fluttua sopra gli alberi, ti guardo da lassù e ti vedo.

Ti alzi, ti sistemi i pantaloni.

Sotto di te ci sono io, ho gli occhi chiusi, le braccia abbandonate lungo il corpo, le gambe tese, i pantaloni abbassati.

Ma tu non mi guardi più, ti giri e te ne vai; non ti accorgi nemmeno che sono morta, non te ne importa nulla.

Non riesco a staccare il mio sguardo da quel corpo che non sento più come mio, poi vedo che una mano si muove, la ragazza sposta leggermente la testa e apre gli occhi.

Vedo ancora gli alberi, ma ora li sto guardando dal basso, vedo i tronchi e le foglie che si agitano leggermente, quasi a volermi portare quell’aria che mi mancava e che non faceva dilatare i miei polmoni.

All’improvviso mi ricordo di quello che è successo.

Non riesco a muovermi, voglio tornare a volare sopra gli alberi, stavo così bene e non sentivo dolore.

Rimango sdraiata su quel terreno duro, una radice dell’albero sta proprio sotto la mia schiena e mi dice che mi devo muovere, che devo andarmene da quel luogo.

Mi alzo a fatica, mi tiro su i pantaloni, sono sporchi, come lo sono io, con quel liquido immondo che sento girare dentro di me e che il mio corpo rifiuta.

Torno sulla strada, non c’è nessuno, non ci sei nemmeno tu, chissà dove te ne sei andato.

Faccio qualche passo, barcollo, poi vedo una panchina.

Mi siedo, il mio visto nascosto tra le mani, e piango.

Un signore con un cane sta passando e mi vede.

Il cane abbaia, io alzo lo sguardo e lo vedo, si sta dirigendo verso di me.

Alzo una mano, vorrei sentire il suo pelo morbido sulle mie mani, portarmelo al cuore; gli animali, a volte, sono meglio degli uomini.

Il suo padrone lo tira e cerca di farlo arretrare, ma lui non demorde; l’uomo mi guarda, mi guarda ancora e poi cede e si avvicina.

“Signora, le serve aiuto?” mi dice.

Quanto tempo è passato da quel giorno, non lo so.

Fatico ad uscire di casa, lo faccio solo per andare a lavorare e non uso più i mezzi pubblici, ci vado in auto.

Sopravvivo, ogni giorno è un giorno in più, ma non è più vita.

Non so dove sei, ma sono terrorizzata all’idea che tu possa fare a un’altra donna quello che hai fatto a me.

Forse un giorno potrò perdonarti, ma ora non riesco, Dio capirà.

L’inferno per me esiste, me lo hai regalato tu.

Forse esisterà anche per te, e sarà per sempre.

Marzia Re Fraschini

Biografia

Sono Marzia Re Fraschini, laureata in Matematica alla Statale di Milano. Da sempre docente di Matematica e Fisica nei licei scientifici e anche autrice di numerose collane di testi di Matematica per le scuole superiori per la casa editrice Atlas-Zanichelli di Bergamo.

Recentemente ho anche scritto un romanzo, con mia grande gioia pubblicato da Tracce Per La Meta, dal titolo “Progetto Estinzione”.

Sono sposata da 44 anni con Ambrogio e la nostra famiglia conta ora, oltre alle nostre due figlie, due generi e tre nipoti.

Non chiedermi di domani

Piuttosto svagato cambiò corsia e dal reparto ortaggi del supermercato entrò deciso in quello dei vini, ma il suo carrello ne urtò con forza un altro, abbracciandosi come due amanti da troppo tempo lontani. Le merci acquistate si confusero, torre di Babele di mercanzie. Lui alzò gli occhi, pronto a chiedere scusa, ma incrociò quelli della donna il cui carrello aveva urtato: non disse nulla, torre di Babele di pensieri.

Si guardarono a lungo, in silenzio, o forse furono solo pochi istanti, spesso un secondo può essere lungo come un’ora e un’ora breve come un secondo, specie quando secondi e ore scandiscono i tempi del lasciarsi e del ritrovarsi e quindi lasciarsi ancora, e allora il tempo addirittura si ferma: entrambi lo sapevano bene cosa tutto ciò volesse dire, non potevano certo averlo dimenticato.

Lui s’era tagliata la barba che portava da anni, proprio a significare un giro di boa con però un secondo tratto da percorrere con le vele sventate e la barca alla deriva che proseguiva il suo cammino indolente, ma lei lo riconobbe subito, come avrebbe potuto essere diversamente?

Anche lui la riconobbe subito, gli bastò per riconoscerla specchiarsi in quegli occhi in cui per mesi aveva affogato la sua vita, nessun salvagente per tenerlo a galla, nessuna cima a cui aggrapparsi.

Del resto, erano passati solo due anni dal giorno dell’addio, da quando il freddo sole di gennaio aveva all’improvviso risvegliato in loro la ragione e la consapevolezza dell’andare verso un inesistente domani. Ma le ferite non s’erano rimarginate come avevano sperato o come fingevano di credere, dopo che s’erano rituffati nella normalità di due vite separate, non come due corpi distinti, ma come due parti d’uno stesso, tagliato di netto dall’affilata ghigliottina delle convenienze.

Lei socchiuse le labbra come per dire qualcosa, ma poi non riuscì a dire nulla e le parole divennero bisbigli, non molto dissimili dai sussurri provocati dai fremiti dell’amore. Lui notò quel piccolo movimento della bocca, ancora ben presente in lui e ancora vivo nel suo cuore; quante volte quelle labbra si erano schiuse per lui, appoggiate alle sue, a cercarsi a vicenda, in un sottile gioco di unirsi e di perdersi, per rinnovare il piacere di ritrovarsi.

Anche lui fece per dire qualcosa, ma anche a lui mancarono le parole. Eppure, lungo la strada del loro amore quante parole avevano detto, non avevano più segreti l’uno per l’altra, tranne il grande segreto del loro amore, sigillato nei loro cuori, affinché nessuno, vedendolo, lo potesse rubare. Ed ora invece non riuscivano a parlare, come se non avessero avuto più nulla da dirsi, ed invece in quei due anni di lontananza quante parole avevano accumulato dentro di loro!

Lei alla fine prese l’iniziativa, e voleva dirgli: “come stai?”, ma invece le parole cambiarono direzione, l’onda dei ricordi prese il sopravvento e le labbra si schiusero in una fessura d’amore e gli chiese con un’antica consuetudine:” cosa stai pensando?”

A lui sembrò la cosa più normale del mondo che lei gli chiedesse ciò e le rispose, con un filo di voce: “sto pensando a te, come ieri, come il mese scorso, come uno, due anni fa. Non ho mai smesso di pensarti in tutto questo tempo. Non ho fatto altro che berti la mattina nel mio caffè, che mangiarti nel mio pane, che dormirti nel mio letto, che piangerti nelle mie lacrime. Amore, mio unico pensiero, giorno e notte, alba e tramonto.”

Lei si rivolse a suo marito che le era accanto, tutto assorto a scegliere una marca di vino che doveva essere ben particolare non aveva notato la cosa grande che stava succedendo attorno a lui. “Caro” – gli disse lei, ma poi si fermò, quella parola era uscita stonata in quel momento, insopportabile, detta di fronte a lui, che caro le era stato veramente per lunghi mesi e che in quel momento si rendeva conto di come lo fosse ancora di più. Poi lei proseguì distogliendo l’uomo dalla ricerca del vino perfetto, dicendo: “ho dimenticato di prendere l’olio, andresti nell’altra corsia a cercarlo?” L’uomo, abituato a farla contenta, sorrise e s’allontanò.

Lui e lei rimasero soli, riprovando quella sensazione che tante volte era entrata loro fin nelle ossa di essere soli pur tra la folla, che non aveva il diritto di disturbarli, di intromettersi nella loro vita parallela che stavano vivendo. Dio, forse si ricordarono in quel momento entrambi di un lunghissimo bacio che s’erano scambiati sulla passeggiata di un lungo lago con le acque azzurre come mai, sotto un sole caldo come mai, mentre attorno gabbiani stridevano nel vento felici come mai, ad approvare e ad incoraggiare quel loro stare soli tra la gente, invisibili a tutti. Forse si ricordarono di quel bacio, perché si sentirono all’improvviso smarriti e vacillanti nelle certezze che avevano cercato di costruire lungo due anni di ricordi, ricordi che pensavano fossero volati lontani da loro e che invece s’erano rincantucciati nell’angolo più segreto del loro cuore, in paziente attesa di quell’incontro.

Lui fece per parlare, ma: “Stai zitto, ti prego” – disse lei – “o se vuoi parlare, dimmi solo parole d’amore” e allungò le sue mani verso di lui, gesto antico, se le fece prendere o afferrare, lui era avido delle sue mani, come aveva potuto per due anni farne a meno? Se le portò alla bocca, le baciò insaziabile, poi le strinse con forza ed iniziò ad attrarla verso di sé, ma lei non si faceva tirare, era come se lei gli corresse incontro, come quando scendeva ebbra di vita di corsa da un prato, i capelli smossi dal vento, lo sguardo luminoso ed eccitato, e si buttava poi invitante ed un poco ansimante contro di lui, appoggiando il capo sul suo petto, tana accogliente.

Si ritrovarono immediatamente. Lei trovò subito la spalla ove affondare il proprio capo e lì recuperare la pace perduta. Lui abbassò la testa e le sue labbra ripresero a baciarla sul collo, come se non avessero smesso mai. Affondavano le mani nei capelli. Respiri affannosi. Desideri sognati e ad un tempo repressi troppo a lungo. Ritrovarono ogni giardino dei propri corpi come se si fossero lasciati un’ora prima o non si fossero lasciati mai ed in effetti, nonostante ciò che si ripetevano tutti i giorni, non s’erano lasciati mai.

Lui la spinse contro la rastrelliera dei vini, qualcosa forse cadde per terra. La baciò. Qualcuno li osservava piuttosto stupefatto, ma a loro nulla importava, erano troppo abituati a rubare l’amore ovunque per preoccuparsi di uno sguardo d’invidia.

Lei alzò il viso verso di lui, gli occhi luccicavano e lui glieli asciugò con un bacio. Poi cercarono di staccarsi, confusi, storditi, ma non riuscivano a sciogliersi da un abbraccio inestricabile, come i rami di due piante che crescono vicine e che si fondono nel tempo una nell’altra e che quando decidono di separarsi non riescono, è troppo tardi per dividere i loro destini, divenuti ormai una cosa sola.

Lui la prese per mano, senza dire una parola, e la condusse fuori dal supermercato. Per una volta, lei si fece guidare, senza nulla obiettare.

“Non chiedermi di domani” – le disse lui – “perché non ho risposte nemmeno per l’oggi.”

Liborio Rinaldi

Io parlerei sempre di:
Mio Padre e Mia Madre

Io parlerei di mio padre e di mia madre, sempre. Parlerei, di loro, con il cielo, ogni volta che sto guardando l’infinito e i miei occhi si perdono nell’azzurro immenso e poi, non so immaginare oltre, cosa ci sia; oltre il limite che delinea la straordinaria forma dell’arco blu, per intero, più ancora, dove andrà o potrà perdersi il mio pensiero. Io parlerei di mio padre e di mia madre, sempre. Parlerei, di loro, con le stelle luminose, a miriade, quando il blu s’intravede a occhi nudi e di nuvole neppure un’ombra. Così la sera, illuminata dalla luna piena, molto più vicina rende, con il suo chiarore, molto più visibile il percorso delle stelle in tanti punti luminosi, distanti tra di loro nel firmamento. Allora i miei occhi diventano così lucidi, di luce nuova, a sprazzi di piccole lacrime, perché il mio dolore, nascosto, viene fuori all’improvviso. Viene fuori, come il mare lento e il suo dolce fluire, a regalarmi tutta la storia di voi due, miei cari, amati genitori. Una grande vita assieme e poi la realtà, quella di ricordarvi soltanto, con la mia mente; di andarvi a pescare ovunque, coi miei ricordi randagi, come gatti senza pace e senza mèta, per le strade solitarie, a miagolare, coi lamenti strani e nessuno sa mai perché.

Io parlerei di mio padre e di mia madre, ogni volta. Parlerei con la luce del mattino, come sa fare un artista, appena sveglio, dinanzi a una meraviglia, per scrivere qualcosa e catturare la bellezza, che non riesce a esprimere a parole, con il suo cuore. Io parlerei di loro, coi miei pensieri solitari, con il mio cuore chiuso e muto, rimasto lì, impietrito, il giorno che li ho visto andare via per sempre, dalla mia vita. Così, poi, il dolore ha preso un posto lancinante, nella mia stessa carne. È come un male che ti appartiene e cresce dentro te, con la voglia di parlare e di cercare cose con affanno nel profondo dove appare solo il vuoto. Ma, dentro, tu trovi, inverosimilmente, il nulla; ovvero, un sentiero spaventoso che percorri, con il tuo dolore, con la voglia di farlo, per sentirti meglio con l’illusione che ti abbraccia ogni mattino e ti dà un bacio, con la l’aurora appena intiepidita, dal tenue sole, perché senti che ha pietà di te.

E, da allora, la vera pace, in me, forse, sembra un po’ fittizia. Il mio vivere cela forti i misteri così inspiegabili di questa vita, che pure va, a rilento e, sembra, che poco mi appartenga, con la vera gioia. A me, pare, che si continui a camminare come un rituale, un po’ speciale. Inesorabilmente, come traccia vera, ti porti dentro culture e sentimenti forti, tradizioni grandi e radici solide, ancora più attecchite con i duri inverni, a mio dire, troppi amari, quando li senti arrivare dalle Alpi, dietro i monti, con il tagliente freddo. Così, tu senti pungerti la pelle, come spilli conficcati nella tua stessa carne. E, respiri la forza dell’intenso freddo, come se una parte dura di esso ti appartenesse da sempre, oramai, e ti conoscesse coi tuoi passi stanchi, rumorosi sulla ghiaia ghiacciata, delle contrade quasi deserte, quando il silenzio ti ruota attorno e si lascia percepire, adagio, come per ricordarti che è lì e non ti lascia mai.

Io parlerei di mio padre e di mia madre, ogni volta, dinanzi a una tempesta nera, con forti scrosci d’acquazzone sulle stradine di una via, così aperta e larga, e sembra entrarti d’impeto nei tuoi occhi, fissi nello spazio. E, tu, hai voglia di vedere nel vento la sua grande forza correre tra i rivoli d’acqua scura, mentre porta via i detriti, foglie, cartacce inutili, un mucchio inerme, rotolante a palla, piena di foglie secche.

Io parlerei di mio padre e di mia madre, ovunque andrei, in viaggio per i luoghi che non ho mai conosciuto prima, continuando a ricordarli nei momenti così belli di quando erano in pieno vigore e gioia. Difatti, li ho visto assieme abbracciati, felici, baciarsi, darsi forza per noi setti figli, ancora piccoli, io la primogenita, anch’io piccola. Oh, ma che giorni stupendi, sono stati quelli. Io per mano al caro nonno e papà, per le strade di Napoli, a fare spese natalizie. Si parlavano tra loro, sottovoce, forse per confrontare prezzi e quantità di cose, da comprare, chissà. Infatti, tutti questi miei giorni, come granelli, di rosario, si sbriciolano tra le dita dei miei ricordi, e non so più se pregare o imprecare nella mia lenta rassegnazione, mentre, adagio, si aprono i ricordi, nello scrigno della mia fervida memoria, sul cammino della vita, un po’ strana e troppo dura; come se io desiderassi aggiungerli, con il pensiero e con la mente, al percorso del mio viaggio, che ancora mi rimane, da percorrere. E, quasi sempre, la continua ricerca mi porta a scoprire, di loro, tanta straordinaria bontà, l’educazione, i duri sacrifici, soprattutto, che hanno dovuto fare per darmi il meglio in questa vita, assieme ai miei fratelli. Quante volte incontrando amici o amiche che conoscevano bene i miei genitori, hanno avuto parole di grande encomio per la loro forza e volontà di essere stati, in amore l’uno per l’altra, e poi dei bravi genitori. E, così il mio cammino, continua ad arricchirsi di nuove sensazioni, lungo un percorso a ritroso, con lo sguardo colmo di forte nostalgia e il cuore che senti dentro riprendere un altro ritmo più forte. Sovente nella memoria ritorna il luogo o una precisa stradina come se io da piccola fossi stata, assieme a loro, in quello stesso luogo o via, e quasi mi sforzi, invano, di ricordare, quando.

Io parlerei di mio padre e di mia madre, parlerei di loro, sempre, nei miei sogni. Spezzerei così il filo che divide l’illusione e la realtà, stravolgendo la netta verità, ponendomi, dinanzi, incredula, senza poter percepire alcuna differenza. Parlerei al tempo con il soffio della vita che è ancora in me, fino alla fine della vita che mi resta ancora da vivere. Parlerei al tempo come a un tiranno, così perfetto nelle sue fattezze ipocrite, così duro e impassibile, dinanzi al mio sguardo inerme. Statua di marmo nell’invisibile. Eppure, muove la sua usura nel cosmo, lungo i paralleli e i meridiani, inseguendo l’anima della vita, in veste universale. Esso solo sa scarnire i duri volti di ciascuno, come il sole che ti brucia e secca la tua pelle, se rimani troppo esposto ai forti raggi. Così, scruterei, ancora, quella sua sagoma enorme di marmo, fingendo di scorgerla, appena, nell’invisibile, come sfida perenne ai miei dolori e dalle sue mani di creta null’altro scorgerei, solo segreti arcani, così congiunti, fin dal respiro della vita. Il tempo, tutto tiene in pugno, anche se nulla, alla fine gli resta, perché sempre di passaggio, così sembra, anche se appare, come artefice primario in ogni altra evoluzione o involuzione, seguendo i vari cicli annuali in natura. È innegabile, pensare, che il tempo è sempre stato l’artefice indiscusso sulle scene degli orrori, sui palchi dei teatri, sugli intrecci dei destini dei governi, tiranni o no, anche despoti, con la stessa durezza dei cuori di chi ha governato, con mano possente. Ma, i miei genitori, quelli no, non ha potuto il tempo strapparmeli dal cuore, perché continuano a vivere con me, dentro di me, scolpiti a roccia nella mia memoria. Essi sono qui con me, nei mie occhi, ovunque io mi rigiri in questo mondo.

Anna Scarpetta

Biografia

Anna Scarpetta è nata a Pozzuoli (Napoli), si è sempre dedicata alla poesia, narrativa e saggistica. È stata membro di giuria a Napoli, nei concorsi letterari in lingua e in vernacolo, e in tante città italiane.

Ha recensito numerosi libri di poesia e narrativa. A Milano si è dedicata al Teatro Sperimentale, in qualità di Aiuto Regia, con la compagnia teatrale di Ciro Menale, regista, con una trama molto suggestiva dal titolo: Una barchetta di carta, rappresentata al Teatro Litta, di Milano, dicembre 1992; un lavoro liberamente tratto da un testo di Fernando Pessoa. Ha collaborato con prestigiose riviste culturali.

È su Twitter – Facebook: a-scarpetta@hotmail.it.

Ha pubblicato dodici sillogi di poesie: Poesia, Frantumi di tempo, L’Altra dimensione della vita, Le voci della memoria, Io sono soltanto un granello di sabbia, Sognando la grande Amazzonia, Gocce di rugiada in eBook, La follia dell’uomo nel mondo, Nella competizione globale, Andiamo a svegliare le coscienze, Come gocce di rugiada, I Deserti dell’Infanzia. È vincitrice del 1° Premio Letterario Internazionale – Sezione Narrativa nel 2014, Presidente Cav Gianni Ianuale, Premiazione al Castel Nuovo (Maschio Angioino) a Napoli, presso la Sala Antistante dei Baroni. È stata Presidente Onoraria per la Città di Napoli del MOPEITA. È Accademica delle Marche Anconetane. È Membro Honoris Causa a Vitae del CDAP.

Ha ottenuto numerosi riconoscimenti e prestigiosi premi in molti concorsi letterari in diverse città italiane.

Una mattina a Fecamp

Nel cielo livido di una mattina di luglio, i gabbiani volavano bassi sulle increspature di spuma bianca per carpire qualche pesce, litigando tra loro con versi acuti e stridenti. Il mare era dello stesso colore del cielo e si muoveva fragoroso contro la riva e il molo. Marion, stretta nella giacca a vento, s’incamminò lentamente verso il faro posto alla fine del molo, incurante degli spruzzi del mare altissimi che esplodevano come fuochi d’artificio per poi ricadere violenti a un centimetro da lei, o su di lei. Niente poteva distogliere quella sua passeggiata, neanche l’acqua del mare, neanche il vento. Si trovava ancora una volta da sola ad affrontare la vita e quel faro da raggiungere rappresentava la sua unica meta. Almeno per il momento.

Giovani turisti innamorati ridevano di gusto per quegli spruzzi e giocavano a rincorrersi cercando di evitarli. Provò invidia per la loro felicità, una sana invidia.

La sera prima Albert l’aveva chiamata al cellulare e, senza tanti preamboli, l’aveva informata delle sue decisioni future, che non includevano più la sua presenza. Lui sarebbe dovuto partire, diceva, per seguire il suo istinto nell’intento di realizzarsi…

"Sì…sì, va bene" si sentì sussurrare, mentre le lacrime rigavano la sua faccia non ancora struccata. Chiuse la comunicazione lei per prima, non voleva più ascoltare quelle argomentazioni e, guardandosi allo specchio, si scoprì rigata di mascara lungo tutto il viso, come quello di un pagliaccio triste. Non aveva più intenzione di tormentarsi per un uomo, non era giusto. Lei che aveva dedicato ogni suo momento libero a quel cretino di Albert, ora aveva ricevuto il ben servito. A questo pensava mentre camminava e si ripeteva: che scema che sono stata, proprio una scema…

Era giunta alla fine del molo, lì dove troneggiava il faro, una bambina si divertiva a bagnarsi sotto gli schizzi delle onde e le sorrise. Era graziosa, con lunghi capelli biondi che spuntavano dal cappuccio del keway, l’apparecchio ai denti, occhi azzurri e lentiggini. Le correva intorno, saltando e gridando di divertimento. Improvvisamente si fermò, guardando Marion e accorgendosi della sua tristezza. Le venne vicino e le chiese: "Vuoi che ti scatti una foto?"

Marion si sorprese alla sua offerta, ma pensò, per non deludere l’entusiasmo di quella bambina, che non ci sarebbe stato nulla di male ad accettare. Le rispose così: "Perché no?" E le porse il suo cellulare pregandola di non bagnarlo troppo e di fare anche in fretta.

Tutti i denti compresi di apparecchio apparvero in tutta la loro lunghezza e, facendosi indietro di circa un metro, quella graziosa bambina le fece segno di mettersi in posa proprio sotto il faro.

In quel momento arrivò un’onda gigantesca, improvvisamente la bimba scomparve sotto e le scivolò il cellulare dalla mano.

"Christine, Christine!" Una voce si affrettò ad avvicinarsi seguita da veloci passi. La voce apparteneva a un uomo che aiutò la bambina a rialzarsi, cercando di asciugarla in qualche modo, ma lei era completamente zuppa. L’uomo, che era alto e abbronzato, con capelli biondi alle spalle, la rimproverò "Ti avevo detto di non avvicinarti troppo! Cosa ti è saltato in mente?"

Christine replicò: "Ma papà… era per fare la foto a questa ragazza triste, era per farla sorridere un po’."

Marion avvertì di colpo lo sguardo del padre e quasi la pena nei suoi confronti, questo la imbarazzò moltissimo, non voleva suscitare alcuna pena, ne era certa. Prese coraggio e si fece una bella risata, sdrammatizzando per l’accaduto e per il suo cellulare che sembrava ormai morto, imbevuto d’acqua. Il papà si presentò e si scusò per la sbadataggine della figlia, era costernato per il cellulare che si offrì di ricomprare. "Io sono Antoine, il papà di Christine, sono qui in vacanza con mia figlia a Fecàmp. Noi siamo di Parigi e lei?"

"Mi chiamo Marion, abito qui" e una stretta di mano suggellò la loro conoscenza, ma anche un incisivo e potente sguardo magnetico di Antoine che la fece sentire di nuovo… “ma che sto facendo? Sto facendo per caso congetture addirittura su padri di famiglia? Eh no, questo proprio no”, pensò Marion.

"Le posso offrire qualcosa di caldo? Così ci asciughiamo anche un po’ e ci leviamo soprattutto da questi schizzi" disse Antoine ridendo.

"Certo, con vero piacere" rispose lei. La bambina nel frattempo saltellava felice intorno a loro, mentre ritornavano indietro verso la parte abitata della città, piena di case e locali, affacciata sulla baia. E così seduti a un tavolino di un bistrot, nel giro di poche battute, Marion apprese che il papà di Christine era separato e che questa era una delle settimane estive in cui si doveva occupare della figlia. Ordinarono entrambi un bicchierino di liquore benedettino di produzione locale e si scaldarono anche con i racconti reciproci, le loro storie, i loro fallimenti e delusioni. Lui le sorrideva mentre lei avvertiva che qualcosa stava forse cambiando, quel sorriso le piaceva, sapeva di genuinità e onestà. Non voleva fare però alcun tipo di pensiero, in quel momento seduta a quel tavolino, sorseggiando il suo liquore e parlando con Antoine, si sentiva veramente bene. E questo per ora le sarebbe bastato.

Tania Scavolini

Una mattina d’autunno

È una mattina d’autunno ma in quella felice isola di Sicilia si percepisce ancora l’estate, mai terminata. Poco distante dalla strada sono nitide le grida degli ultimi bagnanti che si divertono a rinfrescarsi e godere gioiosi dello scampolo offerto. Giuseppe è appena arrivato in quel paesino.

Ha conosciuto in una delle tante chat Liliana che lo ha invitato nella sua terra ed è arrivato il sospirato momento dell’incontro. Lui Piemontese doc, molto timido, continua a domandarsi se ha fatto bene ad accettare quell’inusuale invito da una emerita sconosciuta. Quarantenne, bell’uomo non si è mai concesso stranezze come questa; cuoco di professione e, per di più, con l’hobby della cucina e dei gusti genuini e amante del buon vino. Amava ripetere che ogni pietanza deve sposarsi col giusto nettare.

Mentre è frastornato da mille pensieri raggiunge il punto dell’incontro: la piazza Roma, alla trattoria “Da Agostino”. Il suo abbigliamento, molto casual, è tale da poter essere notato perfino da un non vedente: una polo color salmone e pantaloni rosso sgargiante.

Si guarda attorno, sventolando in maniera nervosa una copia del Corriere della Sera così come concordato per l’incontro quando, d’improvviso, di fronte a lui appare una figura femminile che gli porge la mano dicendo: “Sono Liliana e tu suppongo sia Giuseppe.”

Un tremore attanaglia le gambe del nostro uomo anche se cerca di fare finta di niente e propone immediatamente di prendere posto a un tavolo della trattoria. Giuseppe ha necessità di sedersi e inumidire le labbra e la gola resa riarsa dall’emozione. Squadra Liliana e si accorge che si tratta di una ragazza molto più carina di quanto si aspettasse. Abbigliamento ricercato su un fisico prosperoso e gradevole e un sorriso d’incanto.

“Bisogna brindare al nostro incontro” -propone Giuseppe riprendendo fiato- “Rappresentiamo due popoli tanto distanti tra loro per cultura e storia ma accomunati dalla tavola e dal buon vino.”

Una bottiglia di Donna fugata è presto stappata per il primo brindisi mentre già affollano il piccolo tavolo gli antipasti di mare, i crudi e…
Volano, dal piatto alla bocca, le ostriche seguite dalle cozze e poi dai gamberi inumiditi da sapidi condimenti.

Un trionfo!

Colore e profumi allietano il momento e sembra che anche gli altri avventori, che con loro occupano gli altri spazi in quella sala, godano dei momenti della magia dell’agape.

Un amalgama di gusti ristora i sensi: gli occhi di Liliana brillano di felicità e sembrano più chiari del cielo che in quell’istante è privo di nuvole e fa da specchio al sole. Dalle finestre del locale anche il mare sembra voglia dire la sua. Leggere onde aggrediscono la riva regalando istanti di luce riflessa che la vista non regge e la voce del mare, a un passo da loro appare come maliziosa serenata.

I sogni che per un attimo hanno rapito la loro fantasia svaniscono alla vista del carrello fumante dei primi.

Anche questi profumi si spandono e le pietanze, come promesse celestiali, iniziano a colorare i piatti, non più candidi, ricolmi in un baleno di appetitosi spaghetti.

Scendono le voci e per un attimo è solo tintinnio di posate che, avide, raccolgono la pasta in uno al condimento. È il vino però che ora cattura il palcoscenico sciogliendo la lingua e fondendo i cuori. I due, spogliati dei tabù, parlano con sincerità del più e del meno e proseguono su questa via nonostante il piatto sia ben presto ripulito e desolatamente vuoto.

Una dolce sfilata chiude l’agape innaffiata con un ottimo passito che, color oro, riempie più volte i due bicchieri a calice.

I due, in fine, raggiungono la spiaggia di fronte a loro e, mano nella mano, si raccontano e sognano…

Carlo Sorgia

Il cimitero delle parole

Sono andato in visita al cimitero del mio paese; un cimitero particolare perché qui sono sepolte le parole: quelle non più utilizzate nella quotidianità delle persone. Lungo il viale che porta dall’ingresso alla cappella, le ho viste tutte, le parole: quelle con la “f”, con la “g”, con la “J” … tumuli, tutti allineati e sparsi a caso. Ognuno raccontava la sua storia, in poche righe: alcune, di vita breve come i neologismi importati dalla Francia, Germania, Svizzera, Belgio dai tanti emigrati che nel crepuscolo della loro vita dovettero riabituarsi a suoni di parole più dolci e meno gutturali; altre vissute tanti anni e, fatto strano, la maggior parte decedute negli anni 60/70/80, gli anni in cui la tecnologia si è sostituita al dialogo tra le persone. Quante volte ho pensato e parlato con le parole che, ora, mute, non esprimono più il suono armonioso delle sillabe come ”Jussu”,”juvu”… parole che hanno conservato nel tempo la loro origine latina e che ora, giacciono, qui, completamente dimenticate.

Ecco la “f” … “furise” era quello che volevo fare da bambino o u “capurale”, “accurdatu” con una delle tante mandrie che allora popolavano le contrade rurali del mio paese. Ma, più in là, vedo la “g” …ricordo che dopo l’esperienza del “craparu” volevo fare “u gualanu”, oggi si direbbe il mandriano, il bovaro, ma allora era il mestiere più diffuso in quel piccolo paese della Sila. Portavo a” gaccia”, di traverso, infilata nella cinta dei pantaloni, pronta ed affilata per ogni uso:” a fraschijare” i due buoi e una vacca che avevamo; a difendersi dai lupi quando ti toccava dormir sotto le stelle; a “sprullare nu palu” per farne un bastone. All’ombra dei cipressi quasi secolari, stanno le altre:” la M”,” N”, P” … ecco la emme! “ma quando è morta?” mi domando; mi piego e leggo: 1975. E sì!, l’ultimo “masru” se n’è andato in quell’anno. Ricordo che dopo le esperienze del “gualanu”, volevo diventare “nu masru”, falegname o scarparu, non importa chi, purché “nu masru!”.Iniziai a raddrizzare “simigi e puntinielli” con gran dolore delle mia dita, ma fu un apprendistato breve perché emigrai dal “masru” di fronte, “chianuazzulu”, come lo chiamavano tutti. Era un falegname a cui era rimasto incollato questo nome, un alias ante litteram, per l’arnese che adoperava: “u chianuazzulu”. Ebbi vita breve come falegname perché u “masru” non ebbe più bisogno del mio aiuto: avevo rotto la sega a giro nel tentativo maldestro di farmi una ruota dentata per la “tocca-tocca”-congegno artigianale che sostituiva il suono delle campane nel periodo pasquale-.

Con quest’ultimo mestiere ero arrivato in quinta elementare, e abbandonai tutto: lingua, amici e il mio paese. Andai in un collegio, nel seminario diocesano, perché diventassi prete: era questo il desiderio di mia madre: togliermi dalla vita grama del “massaro” che faceva mio padre. Dovetti imparare a parlare in italiano, e le parole che mi avevano accompagnato nella mia infanzia, le persi, per strada, pian piano; alcune, come quelle citate, non le ho più incontrate: sono morte perché chi le utilizzava se n’è andato, come me, mimetizzandosi in altri luoghi, parlando con altre parole e altre tonalità; a me, lontano dalle mie radici, è rimasta quell’inflessione caratteristica dei montanari della Sila. Quando qualche volta, ne ritrovo qualcuna scritta nei post dei tanti social, allora, quelle parole mi fanno fare un viaggio a ritroso, e ritorno ad essere u furise, u gualanu, u masru che volevo diventare.

Antonio Vulcano

Biografia

Vulcano Antonio, nato a Bocchigliero (cs) il 14 gennaio 1948, residente a Benevento in Viale Mario Rotili, 106/A.

Ha scritto: la tragedia di Capo Matapan dal diario di un sopravvisssuto. self publishing; Strane coincidenze. TraccePerLaMeta un racconto: Un uccellino curioso. Antologia di TraccePerLaMeta.

IMMAGINI

Tramonto sul lago

Ciliegio in fiore

Biografia

Gabriella Biondi.

Mi firmo Gabry perché il mio nome mi piace molto, non penso di diventare famosa, ma chissà se un giorno avere un Gabry potrà essere motivo di vanto!!!!!

Amo da sempre i colori ad acqua e la magia che nasce dalla fusione di questi due elementi; il mio maestro Angelo Gorlini dice che il dipinto deve dare emozioni e io aggiungo che mi dà questa piacevole sensazione già realizzarlo, anche se non sono mai soddisfatta appieno, di notte mi tormento pensando a nuove pennellate... poi separarmi da loro è sempre un dispiacere...

Cuba

Biografia

Carla De Bernardi è nata Alessandria d’Egitto e ha trascorso l’infanzia a Parigi.

Vive a Milano dal 1963 dove svolge l’attività di fotografa e scrittrice. Dal 1997 al 2007 ha ricoperto un incarico come top manager presso Terme e Grandi Alberghi di Sirmione spa. Nel suo archivio sono presenti ritratti di personalità della cultura, musica, letteratura, teatro, cinema, imprenditoria etc. che ha esposto in numerose mostre personali e collettive. Ha scritto diari narrativi di viaggio, romanzi, racconti, saggi, articoli, testi per pubblicazioni di autori vari. Ama viaggiare a piedi sulle antiche strade che attraversano l’Europa. Ha percorso la Via Francigena, il Cammino di Santiago, il Cammino Aragonese, il Cammino di Assisi, la Via Micaelica, il Cammino Materano. Ha fondato ed è presidente dell’Associazione Amici del Monumentale di Milano, è stata vicepresidente dell’Associazione Amici della Scala ed è socia fondatrice dell’Associazione Movimento Lento che promuove il viaggio a piedi e in bicicletta. Ha al suo attivo numerosi libri di viaggio e di storia oltre a numerosi romanzi.

MaRe

Biografia

Antonio De Blasi è un disegnatore illustratore che vive e lavora a Saronno. La sua ricerca artistica si concentra sullo studio del segno e della figura umana che rappresenta secondo i canoni del simbolismo. De Blasi è rappresentato in Cina da Art Bank di Nanchino, ha al suo attivo un percorso espositivo che lo ha visto impegnato in mostre collettive e personali: in Italia (Roma Nero Gallery, Milano Looking For Art Gallery, Pesaro Palazzo Ducale, Urbino Sala Raffaello, Napoli Castel dell’Ovo, Trieste Sala Fitke, Andria Museo Diocesano, fino alle ultime personali del 2018/2019/2020 nei Musei civici di Varese e nella Sala Nevera di Saronno, e Villa Pomini di Castellanza.); negli U.S.A. (città di Kill Devil Hills del North Carolina e di Richmond in Virginia presso La Jack Rogers Gallery). Tiene corsi e laboratori di disegno presso le scuole elementari e medie di Saronno, collabora con numerose case editrici italiane e francesi per l’illustrazione di libri.

La morte di P. P. Pasolini

“La morte di P.P.Pasolini”, acrilico su tela, formato cm 80 x80, anno 2010.

Oscar Wilde

“Oscar Wilde”, acrilico su tela,

formato cm 80 x80, anno 2013.

Ritratto di Luigi Pirandello

“Ritratto di Luigi Pirandello”, acrilico su tela con inserimento stampa digitale,

formato cm 80 x80, anno 2013.

Nei fogli che Pirandello ha in mano c’è scritta una frase tolta dal romanzo "Tutto per bene"

Mettere confusione nell’ordine della gente savia, per far vedere che in quell’ordine c’è polvere di vecchiaia.

Biografia

Alberto Fornai lavora su tela, cartoni recuperati, pannelli di legno, usando il suo caratteristico fondo, un riconoscibilissimo schema a mattoni di varie dimensioni. Quando trova una immagine che lo colpisce, la usa per farne una serie di quadri, salvo poi abbandonarla come un bambino che trova altri giochi. I suoi primi lavori erano di ispirazione metafisica, poi, influenzato dall’atmosfera di contestazione degli anni 70, è passato a soggetti politici e d’impegno sociale, come il contrasto tra uomo e società, uomo e violenza, uomo e tecnologia, uomo e natura. Oggi ha ripreso molti di questi temi, con il disincanto dell’età matura.

Vaso

Fotografie di Ernesto Gallarato

Vaso con decorazioni liberamente ispirate allo stile Liberty, realizzate con la bigiotteria di Giuseppina e con vari oggetti - apparentemente inutili - ripescati dai "rifiuti"

Leonardo

Biografia

Danilo Roman.

Sono nato a Seregno, Mb, il 6.7.1960.

artista dall’età di otto anni, con musica e pittura, ho seguito un percorso di ricerca personale.

Sono autore del libro ‘Armonia e Improvvisazione’ Casa Musicale Eco, 2015.

Ho donato al carcere di Foggia, nel 2020, un dipinto di Gesù della Divina Misericordia, in grandezza naturale.

Attualmente mi divido tra musica sacra e arte sacra.

INDICE

PREFAZIONE a cura di Anna Maria Folchini Stabile 5

POESIE

Adragna Francesco

Anima crisalide 8

Arrabito Latina Rita

A una rondine 10

Balacchino Antonella

Ombra di Vulcano 12

Bertella Margherita

A braccetto con la paura 14

Lavatoio 15

Il filo 16

Calopresti Antonella

Luna 18

Caron Gian Luigi

Hotel Supramonte 2020 20

Caifa 21

Carresi Sandra

Un profumo di nome “UOMO” 24

Chiarello Rosa Maria

Temporali d’estate 26

De Rosa Mario

In tempo propizio 28

Di Pietra Debora

Percezioni asimmetriche 30

Domenighini Luciano

La città delle donne 32

Apparizione 33

Natale 33

Aria di primavera 34

Fergnani Fabrizio

Divenir vegano 36

Franzetti Federica

Seguaci di speranza 39

Gallarato Ernesto

Il sasso nello stagno 41

Gattu Soddu Mariuccia

Minoredda che munnia 49

Piccola piccola come un pidocchio appena nato 50

Luraghi Maria Lurisa

Dice la vita 52

Il tutto e il niente 53

Macaluso Maria Luisa

Alla mattina 55

Marcuccio Emanuele

A Grazia Deledda 57

Martignoni Salima

Primavera di pace 59

Noi... 60

Moschella Santi

Invocazione 62

Paladino Rosa

Giordana 64

Rifugio 65

Come la luna 66

Rinaldi Liborio

Il fiore avvizzito e la farfalla colorata 68

Risplendente Concetta Maria

Arrivò il tempo nel mondo dei giochi 70

Salvaggio Carmelo

Esule 72

Sarrica Benedetta

Poeta in cammino 74

Contrasti 75

Soli 76

Odissea 77

Saviano Elena

Italia, una nazione da ritrovare 78

Scavolini Tania

Come uno scrigno prezioso 81

Scremin Mauro

“Profumo etereo dell’esistere” 83

Sedita Maria

Al gelo 86

Sodi Anna

Papaveri rossi 90

Sorgia Carlo

La grande vetrata 92

Spagnolo Enza

Angera 94

Speziale Liliana

Il grido del mondo 97

Stabile Anna Maria Folchini

Come musica 99

Il vaso di basilico 100

Surano Paola

Si schiude questo cielo 102

Da tempo tace la mia voce 103

Tolomeo Giusy

Sappi, amico mio... 105

Zanutto Carlo

Cosa lasciano i Poeti 107

RACCONTI

Bonfanti Roberto

Al centro 110

Carresi Sandra

Oltre... il tempo, lo spazio, il momento 116

Cavazzi Rosanna

La falena e il falo’ 125

Chiarello Rosa Maria

Ricordi d’infanzia 129

D'Amico Giorgia

La magica mongolfiera 136

Di Muccio Rosanna

L’uomo giusto 140

Di Pietra Debora

Diciotto metri 151

Falzone Federica

Non sono occhi da turista 157

Gallarato Ernesto

Il piumone 167

Meli Alessandra

Lo volevo lì 176

Meli Enzo

Viaggio nei ricordi di un
bambino degli anni 50 dintorni 179

Moroni Laura

Donna e medicina cinese 189

Re Fraschini Marzia

Anna e le sue amiche api 196

Non ti posso perdonare 209

Rinaldi Liborio

Non chiedermi di domani 216

Scarpetta Anna

Io parlerei sempre di: Mio Padre e Mia Madre 223

Scavolini Tania

Una mattina a Fecamp 230

Sorgia Carlo

Una mattina d’autunno 235

Vulcano Antonio

Il cimitero delle parole 239

IMMAGINI

Biondi Gabriella

Tramonto sul lago 244

Ciliegio in fiore 245

De Bernardi Carla

Cuba 247

De Biasi Antonio

MaRe 249

Fornai Alberto

La morte di P. P. Pasolini 251

Oscar Wilde 254

Ritratto di Luigi Pirandello 255

Gallarato Ernesto

Vaso 256

Roman Danilo

Leonardo 259

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